Se vi attacca, combattete

Gli americani hanno questa fissazione per le procedure, una sequenza di azioni codificate da utilizzare nelle situazioni più svariate: dalla cottura dell’hamburger alla microchirurgia sul tendine estensore della mano. Si tratta di regole precise e difficilmente derogabili, certe sono scritte, altre tramandate dal tempo e dal buonsenso. Conoscerne qualcuna è sempre meglio, così, quando nel bel mezzo del nulla, in una notte senza luna nei pressi di Twin Falls, nell’Idaho, una pattuglia di Highway Patrol nera come la pece vi seguirà a fari spenti e poi, improvvisamente, accenderà tutte le luminarie e lampeggianti di cui è dotata, saprete esattamente cosa fare. La prima cosa è farsi prendere dal panico e pensare al peggio; a seguire è consigliata una gragnuola di epiteti in lingua madre, per poi passare ad un veloce recap della filmografia road movie 80/90, poi, finalmente, si può agire: freccia a destra, si accosta il veicolo al di là della striscia gialla, il cambio automatico in posizione parking, si spegne il motore e si aspettano le istruzioni, possibilmente fingendosi disinvolti. Chi ritiene, a questo punto, può anche iniziare a pregare.

Dall’altoparlante della sua auto, l’agente ci ha chiesto di restare seduti e di posare le chiavi della macchina sul tettuccio. Io questa cosa delle chiavi sul tettuccio l’avevo vista solo nei film dove cercano gente estremamente pericolosa, per cui mi è preso un colpo e ho iniziato a preoccuparmi seriamente. Vuoi vedere che ci hanno scambiato per qualcun altro! E se sto poliziotto fosse un sadico figlio di puttana? Qualche anno prima a Downtown Los Angeles, agli angoli di ogni isolato attorno al tribunale, c’erano dei capannelli di persone e c’erano delle famiglie che piangevano un figlio, un padre o un parente ucciso dalla polizia. Insomma la cosa mi aveva suggestionato e adesso non riuscivo a togliermela dalla mente.

Poi l’agente si è avvicinato e mi ha chiesto la patente. Io ero piuttosto agitato e avevo difficoltà a sfilarla dal portafogli, non veniva via, sembrava appiccicata, l’unica tessera che si muoveva era quella dei punti del supermercato Famila, poi finalmente ci sono riuscito e gliel’ho porta. Lui l’avrà guardata per due secondi e me l’ha ridata insieme alle chiavi della macchina che aveva preso dal tettuccio. Ha spento la torcia, ci ha sorriso e ci ha confidato di averci fermato perché era convinto ci fossimo persi. Aveva notato l’auto a noleggio di un altro Stato, ma non si spiegava cosa potessimo farci a quell’ora, da quelle parti.

Il fatto – gli ha spiegato Donatella – è che volevamo provare a costeggiare la riva del fiume per raggiungere le cascate ma poi si era fatto troppo tardi per proseguire, così eravamo tornati indietro, avevamo mangiato una cosa e adesso stavamo cercando un motel per la notte. Lui ci ha guardato con un po’ di compassione ma senza cattiveria, come a dire: Ma se siete dei fighetti di città… ma dove minchia volevate andare con le ballerine e la polo Lacoste?

È vero, l’indole cittadina non si cancella, c’è poco da fare, al massimo si può camuffare, ma non dura. Puoi trasferirti in campagna e iniziare a lavorare la terra, puoi seguire la scansione temporale delle stagioni, camminare nei boschi, la rotazione triennale e gli ettari a maggese, raccogliere funghi, salire in montagna, cacciare il cervo (un colpo solo), tagliare la legna e conservarla per l’inverno, puoi fare un sacco di cose magnifiche e tutto questo può gratificarti e aiutarti ad essere in pace con te stesso e con il mondo che ti circonda, poi improvvisamente parte un pezzo dei Clash e senti il bisogno prepotente di  tornare in una città.

L’ho capito definitivamente quando sono andato a vedere il Mirror Lake di Yosemite in California, uno specchio di acqua cristallina che riflette, come in un caleidoscopio naturale, cielo, piante e montagne che lo sovrastano. Quella mattina c’eravamo svegliati presto, preparato il caffè, riempito lo zaino con un paio di muffin, due bottiglie d’acqua e diretti alla fermata del bus elettrico che ci avrebbe condotti all’inizio del sentiero che portava al lago. Il cielo era terso, l’aria frizzante, il profumo delle sequoie trasportato dal vento era inebriante e la navetta, che si muoveva silenziose tra le stradine secondarie del parco nazionale, trasportava solamente noi due.

All’imbocco del percorso, ben piantato per terra, c’era un cartello con alcune informazioni utili: una pianta in scala del sentiero e qualche notizia storico-paesaggistica. A catturare la mia attenzione però era il disegno di un puma e la scritta: Mountain Lion Habitat. Sotto, la procedura di sicurezza suggeriva di tenere i bambini sotto controllo, di non farli mai allontanare e di non affrontare il percorso da soli. Poi, un breve decalogo su cosa fare nel malaugurato caso ci s’imbatta in un puma. Prima di tutto occorre stare calmi, non mettersi a correre e non dare le spalle alla bestia, mai. Si devono agitare le braccia, fare bordello, aprire la giacca a vento e allargarla con le mani, mostrarsi grandi e minacciosi. Se nonostante questi accorgimenti il mountain lion non scappa ma anzi avanza nella vostra direzione, beh, allora diventa un problema piuttosto serio: non resta che gridare a squarciagola e tirargli addosso pietre e rami. Alla fine c’era una frase molto americana, che sintetizza lo spirito di un popolo di pionieri: if attacked, fight back. Praticamente: se vi attacca, combattete.

Paranoia! Abbiamo iniziato il trail con Donatella che cercava di tranquillizzarmi ricordandomi come gli animali preferiscono stare lontani dall’uomo, ma io niente. Prima ho trovato un ramo robusto da usare come bastone, poi uno più lungo e appuntito da scagliare come una lancia, infine, ho riempito le tasche laterali dei pantaloni con delle pietre. Ogni 20 passi cacciavo un urlo di guerra tipo Full Metal Jacket. Dopo più di trenta minuti di cammino, di questo Mirror Lake non c’era traccia, abbiamo proseguito per altri quindici minuti con la sensazione di girare intorno. Una tensione bestiale. Improvvisamente un rumore di foglie, un fruscio tra i rami. io ero pronto a scagliare la mia lancia quando ho sentito un cordiale: “Hey guys, whats up?”. Era Harumi, un fotografo giapponese di piante e volatili. Gli abbiamo spiegato che pensavamo di esserci persi e che eravamo diretti al Mirror Lake. Lui si è messo a ridere con garbo, come ridono i giapponesi e ci ha spiegato che c’eravamo già, che il Mirror Lake in estate non esiste perché non è alimentato da un fiume ma solamente dal ghiaccio invernale che si scioglie. Siamo tornati indietro delusi ed emotivamente svuotati, perfino la paura del mountain lion era svanita. Abbiamo raggiunto la strada e ci siamo seduti su due massi separati, in attesa del bus che ci avrebbe riportato dove alloggiavamo. Io ho messo gli auricolari, ho selezionato scelta casuale dei brani ed è partita Rock the Casbah.

 

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