La putià che vende calia e simenza ha piazzato i suoi tavoli spaiati su tutto il marciapiede che di fatto è diventato proprietà privata. Passare è pressoché impossibile, occorre fare interminabili minuti di fila in attesa che il traffico pedonale, costretto in quel budello dallo spropositato numero di tavoli e tavolate, proceda secondo un senso unico alternato regolato dalla spittizza e dall’angheria.
Io ormai ho perso ogni speranza e cerco di farmi scivolare tutto addosso: la città ha toccato il fondo e si è prefererito fare felici e difendere un pugno di malacarni che si sta arricchendo e sta sfruttando ogni risorsa e che lascerà solo macerie, ma tant’è.
Oggi però, vedere la signora disabile in carrozzina chiedere gentilmente di passare su un marciapiede pubblico e sentirsi rispondere “Ouh! ma unni a ghiri… aspetta n’momento no lo veti ca stama travagghiannu.” da un energumeno sudato e spregevole che serviva a una tavolata di futuri codici gialli del pronto soccorso, gamberoni fetidi, adagiati su un vassoio incrostato di lurdìa che gocciolava acqua putrida sulla schiena di un tedesco allampanato, tutto felice e inconsapevole di farsi imbrusare il peggior piatto di crostacei della storia e di dover passare il resto della serata sulla tazza del cesso, mi ha profondamente colpito.
Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine della signora, la sua espressione una volta ricevuta questa ignobile risposta, gli schizzi di melma del vassoio dei gamberoni decomposti che le sono finiti addosso e la dignità con cui ha aspettato e poi, finalmente, è riuscita ad andare via da quel marciapiede, e spero per lei, da questa città. Ho pensato che se fossi stato al suo posto, anziano, disabile, avrei messo la potenza della mia carrozzina al massimo e sarei partito come un kamikaze, sgommando verso il centro di quel dehor improvvisato e mi sarei fatto esplodere, così, a viso aperto.
