A me Le Supplici di Eschilo per la regia di Moni Ovadia è piaciuta tanto. Un’opera coinvolgente, dinamica, con musiche azzeccate, costumi stupendi e tematiche di grande attualità. Sarà che per me l’ultima rappresentazione della stagione ha sempre qualcosa di significativo, che spesso è più incisiva della prima stessa. Sarà perché si respira un’atmosfera più serena, come se chi doveva partecipare esclusivamente all’evento mondano, ha finalmente fatto posto ad un pubblico diverso, più attento, più interessato. Un pubblico normale, che rumoreggia per il ritardo accumulato, ma che poi si lascia conquistare completamente dalla forza evocativa di quei canti che catturano lo spettatore dal primo minuto e non lo lasciano più distrarre, anche al netto dei cali di tensione fisiologici in uno spettacolo di novanta minuti. Non me ne vogliano i puristi, i filologi veri o quelli con la terza media che mi avevano sconsigliato di vedere Le Supplici, ma io credo di aver assistito a uno spettacolo che ha mostrato un possibile futuro della rappresentazione classica. Non sto parlando di un modo corretto o di uno sbagliato di pensare una tragedia, ma di un modo diverso, rivoluzionario se volete. E nella diversità c’è sempre qualcosa da imparare. La scelta di rappresentare Eschilo mischiando siciliano e greco moderno, melodie tradizionali e balli etnici, rappresenta un’operazione di grande valore culturale ed artistico. Rileggere un classico e reinterpretarlo lasciando inalterato il significato e la poetica alla base non è un’operazione semplice, tanto più se lo si trasforma in una grande opera pop. Io mi sono emozionato come non mi accadeva da anni. Sicuramente, il motivo dell’accoglienza dei profughi, così come quello della violenza sulle donne, ha giocato un ruolo fondamentale nel generare emozioni così forti, ma in generale, quello che viene fuori è la forza drammatica delle tematiche che Eschilo, duemilacinquecento anni fa, ha piazzato nel suo testo. Democrazia, libertà, accoglienza, volontà del popolo sono sempre presenti, si fanno largo nella nostra coscienza, anche quando Pelasgo canta in greco e non dovremmo capirlo ma sappiamo benissimo cosa sta dicendo o quando, nel parapiglia della cattura delle supplici, l’unico punto di riferimento è la musica ed il suo incedere ostinato. Ben vengano interpretazioni di questo tipo, capaci di comunicare a tutti, di ridare luce a valori universali, di smuovere gli animi, di ricordarci da dove veniamo e quanto è stato travagliato il percorso della nostra civiltà che non può e non deve fermarsi al parcheggio in doppia fila per consumare una carne di cavallo e sbizzero, al gratta e vinci che ci cambia la vita ed alle ricariche telefoniche consumate inviando freneticamente emoticon dei quali ignoriamo il significato.