Ritorno le iniziative del comune per il Decoro Day. Anni fa, destò molto scalpore il gigantesco murales raffigurante una moderna Santa Lucia disegnata sulla facciata di un caseggiato della Mazzarona. oggi, per placare le critiche dei cattolici più integralisti e riportare l’immaginario iconografico in un contesto più tradizionale, il Comune di Siracusa ha deciso di far dipingere sul palazzo attiguo, una poderosa effigie dell’ex Senatore Lo Curzio…
Mese: agosto 2019
Seduzioni
E anche ieri eri lì, in bella mostra, vestita di rosso. Ne ero sicuro, tu ci sei sempre, non ti perdi mai un evento. Ho imparato a non darti confidenza, a evitarti, a guardarti da lontano, al massimo un cenno di saluto, ma con distacco, senza mostrare alcun tipo di coinvolgimento. Però mi piaci, mi sei sempre piaciuta ma purtroppo non posso più fidarmi di te, questa è la verità. Per quanto ti trovi attraente, ti sei dimostrata subdola, equivoca ed infida. Certo, hai un fascino sofisticato e una naturalezza che ti rende unica. Quando vuoi sei in grado di stupire e di ammaliare con il tuo profumo intenso e familiare, con le tue forme seducenti e quei colori mediterranei, ma io ho imparato a conoscerti e so quanto sei pericolosa. Con te nei paraggi non sono mai tranquillo, perché sei insensibile, spietata e prevaricatrice. Quante ne hai combinate in questi anni? Quante scenate, disperazioni, imbarazzi, fughe in lacrime hai provocato da quando ci conosciamo?
Per fronteggiarti, per non darti sazio, ho imparato a tenere sempre tutto sotto controllo, a dominare le emozioni e ogni singolo muscolo del mio corpo, sviluppando la capacità di gestire in maniera impeccabile calice di vino, piatto, tovagliolo e posate. Mi sono forgiato in anni e anni di estenuanti allenamenti, ho imparato ad affrontare party, apericene, buffet, inaugurazioni, matrimoni, comunioni e battesimi di ogni ordine e grado. Mi sentivo sicuro di me, padrone della situazione, ma poi ho ceduto, inspiegabilmente. Non volevo farlo ma è successo, mi sono avvicinato, mi hai sorriso ammiccante, ti ho sfiorato con la mano e ho percepito un fremito, ho avvicinato le labbra e quel cazzo di pomodoro a cubetti mi è caduto sulla camicia. Minchia, lo sapevo! Stronza bruschetta bastarda, ti odio.
Presto Principe
Ormai è gonfio di umidità e ha le pagine ingiallite, è una vecchia edizione economica Feltrinelli di Barnum di Baricco, è rimasta a Fontane Bianche e ogni anno, alla fine, finisce che me la rileggo. Ogni volta mi soffermo su una frase che dice più o meno: “la tristezza infinita delle verdure bollite e del circo…”, ora, a me le verdure bollite mi piacciono, certo non è un piatto che ordino al ristorante ma è una pietanza terapeutica e defaticante e alcune volte, la sera, a casa, dopo una giornata di sbattimenti, casini e fatture non pagate, sento l’esigenza di tagliarmi due zucchine, una patate, una carota, e una testa di finocchio e aspettare quel fischio rassicurante della pentola a pressione. Per il circo invece è diverso, concettualmente m’indispone. Lo so che è storia, tradizione, i Togni, gli Orfei, il Circo di Montecarlo in prima serata su Rai Tre, il Clown d’oro al Vasquez, però oggi, nel XXI secolo, l’idea degli animali costretti in quelle misere gabbie è insopportabile. Passare da Targia o dai Pantanelli, alzare gli occhi e vedere le espressioni tristi delle giraffe, nate per ammirare l’orizzonte sconfinato della Savana e finite con gli occhi fissi sull’insegna a neon di una sala bingo o di un concessionario di auto usate è qualcosa di straziante. Però, lo confesso, nonostante tutto, ogni volta che ci passo davanti sono tentato di fermarmi ed entrare. C’è un motivo, e lo so che è un’eventualità impossibile, ma io spero sempre di rivedere lui, il Principe dei Coccodrilli che ammirai più di trent’anni fa.
Era un circo sgangherato, un pomeriggio invernale e nebbioso, uno slargo alla periferia di Enna. Non ricordo il nome del circo ma ricordo che andai con mio padre e mia madre per trascorrere il pomeriggio. Solite cose: i clown, le cavallerizze con le paillettes, qualche animale esotico, gli acrobati e poi c’era lui, il domatore di coccodrilli. Sulla carta era un sedicente principe indiano, cosa lo avesse portato a Enna nel novembre del 1986 è un mistero. Il principe, agghindato con turbante, diadema, pantaloni sahariani e mantello, in realtà non era un domatore ma più propriamente un incantatore. Per il suo numero aveva a che fare con tre coccodrilli di media/piccola pezzatura. Le creature, annoiate e intirizzite dal freddo, erano con tutta probabilità stordite da psicofarmaci o da qualche altra droguccia mescalina. Il Principe si piazzava davanti ad uno di loro, gli apriva le ganasce e ci infilava la mano dentro, poi, osando di più, perfino la testa. Il pubblico reagiva tiepido, come se nulla fosse. Con la sola imposizione delle mani il Principe costringeva il coccodrillo annoiato a restare con la bocca aperta o gli faceva compiere delle lentissime e faticosissime piroette su se stesso, gli animali ricordavano vagamente quei padri di famiglia in sovrappeso che decidono di iscriversi a pilates. Il numero, nel suo complesso, era di una monotonia disarmante e anche io, che ero solo un bambino, provavo un certo imbarazzo per questo Principe costretto a coprirsi di ridicolo per portare un pezzo di pane a casa. Il pubblico non sembrava pensarla diversamente perché al termine dell’esibizione, gli applausi furono tiepidi e partì anche qualche fischio irridente. Poi, il colpo di scena.
Ora, esistono due teorie a riguardo. La prima, quella che definirei positivista, sostiene che il colpo di scena finale sia stato un unicum irripetibile: il numero andato male, la posizione dei coccodrilli sulla pista e altri fattori oggettivi avrebbero creato le condizioni ideali per attuarlo. La seconda ipotesi, quella che chiamerò romantica, vuole che questo gran finale venisse eseguito ad ogni singola messa in scena. Io propendo per la romantica e proprio per questo motivo, ogni volta che un Circo è arrivato in città, ho preso informazioni, chiesto a quelli che danno i biglietti gratis al semaforo, telefonato e inviato e-mail senza ottenerne mai niente, un’informazione, un indizio.
– Pronto?
– Sì, buongiorno, senta, mi scusi, avete un incantatore di coccodrilli?
– No, ma ci sono tantissimi animali: la tigre, Il leone, gli orsi siberiani…
– Certo, capisco, ma io sto cercando un principe indiano, era piuttosto famoso negli anni ’80, adesso avrà una sessantina d’anni e vorrei rintracciarlo per poterlo ringraziare…
– Ci sono due elefanti indiani…
– Scusi, ma lei che è nel giro, non è che mi aiuterebbe a rintracciarlo?
– Ma chi?
– Ma come chi! Il principe indiano, l’incantatore di coccodrilli…
– Ma chi lo conosce a questo?
– Non avete un database, qualcosa?
– Ma che sta dicendo?
– Parlo del Principe indiano…
– Senta, adesso mi sta scocciando, mi lasci lavorare. Vuole o non vuole acquistare i biglietti?
– No, se non c’è il Principe non compro niente.
Applausi tiepidi e qualche fischio irridente, gli assistenti del Principe– o forse i suoi sudditi – si caricano un coccodrillo ciascuno e cominciano a dirigersi verso le quinte. Lui, il Principe, li segue con passo regale fino a quando un urlo straziante rompe il brusio del tendone pieno di gente. È la presentatrice, ha i capelli biondi sciolti sulle spalle e indossa una gonna cortissima e una giacca di lamè, ha gli occhi sgranati e indica un punto della pista. Tutti ci voltiamo a guardare, c’è un coccodrillo, è il più grande dei tre, si muove con lentezza esasperante verso gli spalti, prima di poter essere raggiunto, il pubblico avrebbe tutto il tempo di alzarsi con calma e defluire ordinato all’esterno. La presentatrice grida un terrorizzato: “Presto principe! Presto Principe!”. È un attimo, il Principe si volta di scatto, lascia cadere il mantello e corre verso la bestia feroce, la fronteggia, la fissa e impone le sue mani come se fosse un cavaliere Jedi. Il coccodrillo apre le fauci, sembra uno sbadiglio, ma il Principe non ci pensa due volte e gli salta addosso, i due si rotolano per terra, il coccodrillo non fa la minima resistenza, vuole solo tornarsene nella sua gabbia. Il principe ne esce vittorioso, si issa il coccodrillo sulle spalle manco fosse un tappeto persiano e se lo porta via. La presentatrice ci invita ad applaudire e ringraziare il Principe che con coraggio e sprezzo del pericolo ha affrontato a mani nude un pericoloso predatore evitando una strage di pubblico. Tra gli spalti, pochissimi applausi, la stragrande maggioranza delle persone è impassibile, non ha capito… non certo la pericolosità della situazione, ma la grandezza e la disperazione della messa in scena. I miei genitori ridono di gusto, scattano in piedi, io li emulo e insieme cominciano a gridare entusiasti: “Grazie Principe! Grazie Principe!”.
Landing
Sul Catania-Berlino l’applauso per l’atterraggio è stato talmente fragoroso e spontaneo che per la prima volta mi sono unito anche io al giubilo generale con cadenzati e sinceri “bravo” rivolti al comandante. Il mio atteggiamento ha suscitato l’apprezzamento genuino del signore al 15D che, sul bus che ci portava al terminal, mi ha detto: “Cettu ca chisti su piloti troppu bravi… chi spacchiu a fari Alitalia!”
Con le ali
Le reazioni delle persone davanti al pappapane cu l’ali sono sempre sconsiderate e fuori controllo, io per primo, lo ammetto. Non c’è tigre, leone, serpente velenoso, cane feroce o tirannosauro che tenga, davanti al pappapane cu l’ali tutti vanno fuori di testa. Cosa rende questo insetto così temuto e bistrattato è un mistero, probabilmente una combinazione di fattori: il colorito tra il marrone e il rossiccio, le antenne vigili e le orribili zampette pelose, ma la caratteristica che rende il pappapane cu l’ali terrificante e imprevedibile è la sua capacità di volare. Il volo del pappapane cu l’ali non è mai calibrato, niente a che fare con le traiettorie della mosca, distante anni luce dal planare leggiadro della zanzara, estraneo al vorticare ossessivo della cimice. Il pappapane cu l’ali, quando è messo alle strette, spicca un salto e sbatte le ali. Quando vola emette un suono sconcertante, una specie di “fapfapfapfap” e quando lo senti è terrore puro. L’orrore nasce dal fatto che il pappapane cu l’ali non è per niente a suo agio in volo, non è cosa sua, non è capace di usare le ali, non è in grado di scegliere una traiettoria e di seguirla, il suo librarsi nell’aria è regolato dall’alea, dal caso. Questa imprevedibilità è la sua arma più efficace ed è la miccia in grado di generare scene di caos e panico di massa.
L’altra sera, a cena in un vicolo di Ortigia, a Siracusa, è spuntato fuori dal nulla, enorme, sospettoso, risaliva il muro su cui poggiava il nostro tavolo e quello di una coppia di commensali di Bolzano. Conosco bene i proprietari del ristorante e apprezzo la dedizione e la cura che mettono nella gestione, per cui, per non fare una scenata, io e Donatella, con molto sangue freddo, ci siamo alzati piano piano e con discrezione abbiamo richiamato l’attenzione del maitre. Lui era impegnato a prendere le ordinazioni di una tavolata, così, mentre i turisti danesi indugiavano nella scelta delle pietanze, mi ha rivolto uno sguardo come a dire: “Emi, che succede? Hai gli occhi del terrore, tutto ok?”. Io ho mosso le labbra per mimare la parola pappapane e poi, ho aggiunto: “enorme” e con le braccia attaccate al corpo, ho fatto il gesto delle ali. L’ho visto congedarsi dalla tavolata e dirigersi a passo veloce verso di noi, non voleva dare nell’occhio. Nel frattempo si erano avvicinati anche un cameriere e la sommelier, tutti erano in grave imbarazzo ma per fortuna nessuno degli altri avventori si era accorto di niente. Il cameriere ha preso un tovagliolo di stoffa e si è avvicinato al pappapane nel tentativo di catturarlo e di farlo sparire ma quello aveva capito tutto così in un attimo: “fapfapfapfap”, è decollato. Ha disegnato una traiettoria sconclusionata, prima sembrava diretto verso il balconcino del primo piano ma poi ha virato bruscamente ed è precipitato sulla schiena nuda di una ragazza della tavolata di turisti danesi. Lei deve aver sentito qualcosa perché si è rivolta all’amica alla sua sinistra e le ha chiesto di controllarle la schiena. L’amica ha avuto solo il tempo di sgranare gli occhi, poi il caos. Urla, tavoli rivoltati, bicchieri infranti, gente che scappava, chi proteggeva i bambini, donne in lacrime, preghiere, quello col coltello in mano pronto a difendersi. I clienti più distanti cercavano di capire e chiedevano: “che sta succedendo, che sta succedendo?”. In pochi secondi il vicolo si era svuotato, sembrava una scena di guerra, eravamo rimasti solo io e Donatella, la coppia di Bolzano e il personale disperato del ristorante. Con una flemma invidiabile quello di Bolzano ha detto che era impossibile che un singolo scarafaggio potesse aver determinato quell’incredibile bordello, allora sono intervenuto per puntualizzare e ho detto: “ma quale semplice scarafaggio… quello è un pappapane cu l’ali!”.
5000
Grazie. Il fatto che 5000 persone seguano questa pagina è la dimostrazione di come l’umanità sia ormai sull’orlo del baratro. La cosa però, lo ammetto, mi riempie il cuore di gioia, per cui, per sdebitarmi e ringraziarvi del vostro affetto e della vostra perseveranza, invierò a ciascuno di voi il Kit Pitacorico contenente:
– Vasetto caponata d’amare;
– Kit falsificazione pass Ztl Ortigia;
– Olio su Tela “Giudizio Universale” con Dio proteso a sfiorare con un dito la mano di Vinciullo;
– Mappa catastale fasulla terreno nuovo ospedale;
– Audiolibro “Sindaco Italia legge nuovo bando rifiuti”;
– Foto di gruppo con Meetup 5 Stelle da inserire in curriculum;
– Spilla Alberto da Giussano che trangugia panino Maremonti;
– Magnete frigo Parcheggio Talete;
– Dispenser griffato per Sassaemayones;
– Funchetto porta fortuna.
Vergognomi assai ma necessito soldi droga.
Complessi
Era una cosa che mi ronzava in testa da qualche anno, prima in maniera prepotente, poi, con il passare del tempo, un po’ si è andata affievolendo, ma non mi ha mai abbandonato, è sempre rimasta un’onta indelebile nella mia vita. Così l’altro giorno, da Dechatlon, quando le ho viste, identiche, in quel tubo da quattro, con la scritta US Open 2015, non sono riuscito a trattenere lo stupore: dovevano essere mie.
Ero andato lì per comprarmi uno spray lubrificante per la catena e i freni, perché, da qualche tempo, ho ripreso ad andare in bicicletta e dato che sono uno che si sveglia presto, ho cominciato ad assaporare queste uscite a capo di mattina, senza meta. Giro i quartieri uno alla volta, alcuni giorni con la musica nelle orecchie, altri senza, per gustarmi i silenzi della città che si risveglia. Osservo le serrande dei negozi chiusi, quelli che vanno a lavorare presto, i primi caffè al bar e quelli che arrivano in macchina e buttano la spazzatura a muzzonei mastelli di un condomino qualunque. In alternativa, mi dirigo verso la pista ciclabile, che a Siracusa è una striscia di terra battuta e asfalto rovinato che si snoda sull’incantevole scogliera di levante. La mattina presto, la pista già brulica di sportivi assortiti e di passeggiatori solitari, tra di loro vige un grande rispetto reciproco e ci si saluta ogni volta che ci s’incrocia come fanno gli svizzeri in Engadina: “guten morgen”, “guten tag”. A me piace arrivare fino alla fine del percorso e poi ritornare indietro. Quando tira il Greco e Levante l’andata è una faticaccia ma poi, al ritorno si vola ed è una sensazione bellissima. Ultimamente, sulla pista, tra la fine della Mazzarrona e la tonnara di Santa Panagia, è comparso un branco di cani randagi. Non so dire se siano malvagi come sembrano o fanno solo finta, ma un paio di volte sono sbucati dal nulla, appostati come gli indiani nei film western, e mi hanno rincorso abbaiando come pazzi per quasi cento metri, una distanza che se hai il vento contro, sembra non finire mai. Un’altra volta mi sono fermato per soccorrere una ragazza a piedi, era in lacrime, avevano tentato di azzannarla ma lei era riuscita a fuggire e adesso era sotto shock, così abbiamo fatto un pezzo di strada insieme fino a quando lei non ha preso una delle uscite laterali all’altezza di viale Tunisi e se n’è tornata a casa.
Da Dechatlon tra il reparto ciclismo e quello tennis c’è un negozio intero. Non so perché sono passato da quel corridoio, io in effetti non gioco a tennis da anni, non ho più nemmeno la racchetta. Da adolescente l’ho praticato con amore incondizionato, passione genuina e risultati trascurabili, se si esclude un rovescio a una mano, liftato, in backspin, che ancora oggi mi dà grandissime soddisfazioni sul tavolo da Ping Pong. Con Enrico, il cugino malacarne, ci allenavamo tra la Cittadella e il Matchball e poi interminabili pomeriggi e domeniche mattine nei campi più disparati: quello del condominio dei miei nonni e quello del fu glorioso Park Hotel di via Filisto. Poi, come molte cose nella mia vita, la passione si è andata a esaurire e per anni non l’ho più seguito. Donatella invece è rimasta un’appassionata e non si perde nemmeno un torneo in tv. Anche lei in passato ha giocato, ma a quanto dice, con risultati perfino peggiori dei miei.
Flushing Meadows, nel Queens, è un impianto gigantesco, da Manhattan ci arrivi in quarantacinque minuti di metro e se sei fortunato, senza bisogno di cambiare linea. Passati i tornelli si è catapultati in una specie di realtà parallela con decine di migliaia di persone che affollano gli spalti e un numero sconsiderato di negozi che vendono merchandising di ogni tipo. In questo contesto, l’elemento più importante non è il tennis, è il cibo, non c’è storia. Centinaia di punti di ristoro dislocati nell’impianto sfornano pietanze di tutti i tipi, h24. Ci sono gli hot dog, gli hamburger, i corn dog, ma anche i noodles orientali, le insalatone, il cibo macrobiotico, il guacamole, il pollo teriyaki, le tortillas, i burrito, i nachos, il fish and chips, la pizza, il kebab, i falafel, la babaganoush, i frozen yogurt con la frutta, i mac ‘n’cheese, le cheese cake, i coni gelato da 500 grammi l’uno quello piccolo, i caffè americani, l’espresso doppio, il cappuccino, lo champagne e milioni di litri di soda e birra. L’Arthur Ashee è uno stadio con 23mila posti a sedere e all’esterno di ogni anello, si susseguono una quantità infinita di punti ristoro, di fronte a ognuno di questi e parcheggiata una roulotte. A differenza del baseball, dove con il biglietto della partita puoi accedere gratuitamente ai buffet pantagruelici e rifornirti di cibo ogni volta che ne hai voglia, qui si paga tutto. La gente si prende il suo salsicciotto, le sue patatine e la bevanda che ha scelto e poi si dirige verso le roulotte. La prima volta che le ho viste ho pensato che si trattasse delle casse per pagare, c’era tutta questa gente in fila e io non riuscivo a darmi altra spiegazione. Non è così: mi trovavo a cospetto dell’eden della sassaemayoness. Sono dei parallelepipedi su due ruote – poco più piccoli di una comune roulotte quattro posti – all’esterno, in bella mostra, ci sono dei dispenser colorati; all’interno, quintalate di ketchup, mayonese, sottaceti, cetriolini in agrodolce, mostarda, salsa barbecue e altre salse speziate che servono a lubrificare il salsicciotto e ti permettono di mandare giù il boccone con più facilità. Ogni due ore passa un addetto con un mezzo elettrico, una specie di Apecar che fa la Chevrolet, aggancia la roulotte ormai svuotata dalle salse e la sostituisce con una piena.
Il bello del biglietto diurno per una giornata di cartellone di US Open è che una volta dentro, puoi andare a vedere quello che vuoi. Hai dei posti assegnati sulla tribuna dell’Arthur Ashee, il campo centrale e questi posti sono tuoi per tutto il giorno, ma tu sei libero di andare e venire, entrare negli altri 32 campi e vederti tutte le partite che ti interessano. La giornata scorreva placida, passavamo da un campo all’altro, ordinavamo da bere, quando improvvisamente: tack, al volo. È una circostanza più unica che rara: tu sei seduto tra gli spalti, uno dei giocatori stecca la risposta o spara uno smash all’incrocio delle righe e la pallina schizza via, supera il rettangolo di cemento, disegna una parabola, si perde un momento nella luce del sole, tu hai giusto il tempo di alzare un braccio e tack. La pallina è nella tua mano. Il pubblico ha iniziato ad applaudire e fischiare e io mi sentivo addosso gli occhi di tutti. Ho guardato in basso e c’era il raccattapalle che mi fissava, io ho percepito l’accenno di un gesto, una cosa come: “ouh mpare, ietta sa pallina, fozza”. Forse la paura di apparire agli occhi di tutti come l’italiano a corto di senso civico, fatto sta che ho aperto la mano e puf, l’ho rispedita dolcemente in direzione del raccattapalle. Donatella mi ha fulminato con lo sguardo e mi ha detto: “Ma perché?”. “Non lo so che mi è preso – ho risposto – tutti mi guardavano… mi sono cassariato, scusami, sono davvero mortificato”. “Ma dai – ha esclamato lei – ci portavamo a casa una pallina di uno Slam… ma quando ci ricapita”.
“Ma il raccattapalle mi è sembrato così perentorio”.
“Ma per favore… quelli te la chiedono indietro, ma nessuno gliela ridà”.
Un senso di frustrazione e inadeguatezza si è impossessato di me e a nulla sono valsi gli sparuti applausi di un gruppo di gentlemen ben oltre la settantina che avevano apprezzato il mio gesto signorile. Mi sentivo svuotato, come uno che non è riuscito a cogliere un’occasione. Donatella se n’è accorta e ha cercato di rincuorarmi, mi ha detto che in fondo non era successo niente, che era solo una pallina e ha suggerito di cambiare aria, prenderci qualcosa da bere e cambiare campo.
Quell’anno il torneo femminile fu caratterizzato dalla sorprendentemente finale tra due tenniste italiane: Flavia Pennetta e Roberta Vinci. La Pennetta si aggiudicò il trofeo ma la Vinci, in semifinale, aveva battuto la più grande e la più forte di tutte, Serena Williams. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa del genere e nemmeno noi, ma ciò nonostante, per spirito patriottico, ci siamo diretti verso il campo 8 per vedere il match della Pennetta contro una sconosciuta wild card della Repubblica Ceca. La tennista italiana conduceva tranquillamente il gioco, la partita era al limite del monotono, stavamo per andarcene e raggiungere il campo centrale per l’inizio del match di Roger Federer, quando improvvisamente: tack, al volo. Di nuovo, pallina in mano, applauso del pubblico, urla di Donatella, sguardo del raccattapalle “ietta sa pallina”, occhi di tutti addosso, confuzione e puf: un attimo dopo la pallina già rimbalzava sul cemento diretta tra le mani del raccattapalle. Ho percepito un bisbigliato ma perentorio “ma vaffanculo”, il posto accanto a me era già vuoto.
“Dove vai?”
“…”
“Te la sei presa? Scusami”.
“…”
“Donatella”
“…”
“La prossima la tengo… te lo giuro!”.
“…”
“Donatella…aspettami”.
Ce la ventiamo ai turisti
– Buongiorno, volevo 2 kg di uva nera…
– Questa è speciale… attro?
– ’Ste susine sono buone?
– Sono manciami maniciami…
– Allora me ne dia 1 kg e poi…
– Perecosc?
– No.
– Peschenosc?
– No
– Tabbacchiere?
– No, quelle no, l’altra volte erano scipitone!
– Quacche cosa ti esotico? C’ho il manco, la papaya e l’avocato…
– Ma quale manco e avocato… Come sono ‘ste sbergie?
– Uno zucchero, duci duci, non si pono luvari ra ucca.
– E me ne dia un chilo per favore.
– Attro?
– Ma sta papaya è matura?
– (sottovoce) non sa pigghiassi… è cattuni preciso! Eh Eh Eh… Questa ce la ventiamo ai turisti.
Salvini in città – La pratica guida per i Siracusani
Le edizioni Pitacoriche presentano: “Il manuale del leghista di governo” la pratica guida per il siracusano senza arte né parte. Un testo semplice e puntuale per apprendere l’ABC leghista in poche piccole mosse e mostrarsi subito pronto a mendicare un posto di sottogoverno, una benedizione, un’indulgenza, una manciata di rubli. All’interno, una ricca sezione dedicata alle esercitazioni e un customer service h24.
Inizia la tua scalata nel partito, stupisci tutti ordinando una granita di mandorla con un unico rutto. Chiedi sempre il salame
milano nella pasta alla Norma.
Scopiazza qualche slogan altrui e fallo tuo: “Bus navetta solo per i siracusani”; “Parcheggi gratis per le famiglie tradizionali, no puppi e coppie di fatto”; “Padroni in casa nostra” anche se non paghi l’affitto da mesi.
Parole poche, fatti concreti: se dovessi incappare in una discussione più articolata, mostra il dito medio e fai presente che ce l’hai duro.
Trasmetti agli altri la paura per il diverso, odia i neri e guarda con sospetto tutti quelli con la pelle più scura della tua, anche se si chiamano Spinoccia, Prazio, Miraglia e Mangiafico.
Mostrati sostenitore orgoglioso dell’uscita dall’Euro e della Flat Tax anche se il tuo unico introito è la pensione di mamma.
Utilizza sempre l’articolo prima di qualsiasi nome proprio: il Turuzzo, la Concettina, il Pippo, ma anche Il Frittitta, lo Scapellato, il Cugno.
Il momento è propizio, diventa leghista, non avere timori: la matrice cristiana della tua cultura leghista non ti costringerà ad imparare il latino.
Ai primi cento in regalo la medaglietta placcata oro del Dio Po e un selfie con un dirigente provinciale!