Non erano rifiuti abbandonati ma i pezzi della prestigiosa mostra di scultura “Ciclopica”. Grave imbarazzo al Vermexio e provvedimenti disciplinari per i responsabili, dopo il blitz all’ex Convento di San Francesco. Allertati dalla segnalazione di un cittadino zelante, gli agenti del nucleo ambientale della Polizia Municipale, avrebbero riscontrato la presenza di una discarica abusiva di rifiuti accatastati e comminato sanzioni per oltre 16mila euro. Solo il tempestivo intervento del Sindaco Italia, che assisteva casualmente alla scena, ha scongiurato che le opere d’arte – fiore all’occhiello della programmazione culturale estiva – venissero caricate su due autocompattatori Tekra e distrutte per sempre.
Mese: marzo 2019
Se ne stanno antanto
Della pizzeria vicino casa mia ho parlato in passato, quando iniziarono i lavori per la costruzione del dehor più grande del mondo: un ecomostro in alluminio e compensato, inspiegabilmente autorizzato dalla Soprintendenza. Lo scorcio parziale del mare cattura qualche turista che si avventura in questo lato dell’isola, ma per lo più, i frequentatori del dehor della pizzeria sotto casa mia sono autoctoni. A giudicare dalle auto che guidano, sono anche molto facoltosi ma purtroppo scevri di senso civico. Gli avventori che cenano nella pizzeria vicino casa mia trovano conveniente parcheggiare il loro Suv in seconda fila, di fianco al dehor, possibilmente nei pressi del tavolo che hanno scelto. Di fatto, è come cenare in garage ma a loro sta bene così. Una sera, una giovane coppia che sfoggiava una Bmw X5 nuova di zecca, aveva lasciato il finestrino abbassato e l’autoradio accesa a volume sostenuto, costringendo tutti gli altri a sentire uno sfacciato mix dance con ritornelli neomelodici.
Quando sono passato di lì e ho notato le espressioni sconvolte della famiglia mitteleuropea che cenava nel tavolo accanto, mi sono sentito mortificato. Il capofamiglia ha chiamato il cameriere e in un discreto italiano gli ha chiesto, per favore, di intervenire. Il cameriere ha fatto di sì con la testa ma sembrava infastidito, ha raggiunto il tavolo dei torpi con l’X5 e ha detto:
“Picciotti mi dispiace ma chistu sta scassannu a minchia”.
“Chi fazzu? Stutu?”. Ha chiesto il torpo con un briciolo di rimorso.
“No – ha fatto il cameriere – abbassa tanticchia, tanto se ne stanno antanto”.
Soddisfazioni
– Preco?
– Ehm… due orate, per favore.
– Come le devi fare, al fonno?
– Sì, me le pulisci.
– Cetto. 7 euro.
– Aspetta, ho dimenticato il portafogli a casa, me le metti di lato? Sto qui a Ortigia… dieci minuti e torno.
– Non c’è bisogno, u sapemu cu si: Archimete Pitacorico, chiddu ri Facebook… appoi mi potti.
– Grazie, veramente, sono commosso.
Formazioni
“No, Patanè è in ferie, le conviene rivolgersi al sostituto, il dottor Agosta, stanza 22.” Io devo essere rimasto immobile e con un sorrisetto ebete sulle labbra per un tempo abbastanza lungo tanto che l’usciere ha dovuto scandire: “Ha capito? Patanè in ferie, Agosta, stanza 22”. “Certo – ho detto io – Patanè, Agosta… ho presente”. Poi, mentre percorrevo il lungo corridoio che portava alla stanza 22, mi sono chiesto che fine avessero fatto.
Erano 71 ed erano squadre di calcio, formazioni complete, composte ciascuna da 11 nomi e trascritte a penna in 71 foglietti numerati. La particolarità? Non erano campioni, non erano nemmeno calciatori, erano 781 cognomi messi insieme in base a precisi parametri. Queste formazioni avevano una cosa in comune: suonavano bene. Leggendole scorrevano fluide come la melodia nelle opere di Puccini, come il vibrafono di Milton Jackson quando parte lo swing, come la formazione della Juve del ’82, quella di Zoff, Gentile e Cabrini.
I cognomi li raccoglievo con mio padre e poi lavoravamo di cesello, affinavamo, spostavamo, sostituivamo fino a ottenerne l’armonia che stavamo cercando, la cadenza perfetta. Provenivano da vari contesti: mi iscrivevo al nuoto alla Cittadella dello Sport? Bene, squadra con i compagni di corso. Oppure, i pazienti di mio padre di via Bainsizza e via Isonzo o ancora, squadra di tutti quelli che conoscevamo che guidavano la Fiat 127; quelli che facevano le vacanze in Camper o Roulotte, i colleghi di mia madre al Gargallo, gli avventori del Bar di largo Dicone, e via dicendo. Era una faticaccia, ma col senno di poi, un’opera monumentale, enciclopedica, d’avanguardia, una cosa che manco Diderot e D’Alembert, un patrimonio incommensurabile, un deposito araldico e genealogico senza precedenti che avremmo dovuto donare a Carmelo Bene e poi vedere cosa ci avrebbe tirato fuori.
Come Paperon de Paperoni anche noi avevamo la nostra “Numero 1”, la prima, l’inestimabile, la preferita, il mantra, quella da cui tutto ebbe inizio e che ancora oggi, come un vecchio vinile, suona da Dio e fa così:
Patanè (C),
Agosta e Bonaiuto,
Scirè, Bazzano e Micalizzi,
Tinè, Calì, Alì, Miccichè e Campailla.
Grazie a tutti, sipario.
A Part of the Day
Mi capita quando ascolto musica in modalità random: la canzone parte a tradimento e mi ritrovo catapultato in un altro luogo, in un altro tempo. Mi è successo con A Part of the Day, un pezzo del 2001 di una demo che incidemmo con i Mersenne a Scordia in provincia di Catania. Lì c’era – e credo ci sia ancora – un ottimo studio di registrazione con strumentazione all’avanguardia, personale competente e ottimo rapporto qualità/prezzo se paragonato agli studi equivalenti di Milano o Bologna.
A quel tempo non avevamo i soldi per produrre un album vero e proprio, quindi entravamo in sala, suonavamo dal vivo e il primo take, di solito, era quello buono. Non siamo mai stati una band da sala d’incisione, sebbene tentassimo di comporre canzoni con un minimo di struttura, avevamo un’attitudine punk che faceva dell’immediatezza la nostra migliore qualità.
Certo, eravamo sprovveduti e Leo, per una immotivata paura di essere fregato, si spacciava per uno del posto e continuava a ripetere con marcato accento bolognese “tziamo tutti tzitziliani” a chiunque gli si parasse davanti, però la registrazione di questa demo fu una specie di spartiacque con tutto quello che avevamo fatto prima. A Part of the Day non faceva eccezione anzi, è proprio un brano sui generis, con una lunga intro strumentale, una strofa spezzata e un ponte con batteria, basso e chitarra che si rincorrono e che sembrano andare da nessuna parte.
Qualche mese dopo, a Bologna, aprimmo un concerto di Eugene Kelly dei The Vaselines. L’ultimo brano della nostra scaletta era proprio A Part of the Day. Durante il cambio palco, mentre eravamo intenti a smontare le nostre cose il più velocemente possibile per permettere ai tecnici di montare l’altro set, Kelly si avvicinò sorridendo e mi disse una cosa tipo: “Your last song rocks!”, o forse era “Your last song sucks!”. Il fatto è che il dj aveva sparato la musica a palla e io da diciotto anni ho ancora sto dubbio.
Radio Stars
Nel periodo a cavallo tra le elementari e le medie, quando le giornate si accorciavano e faceva freddo per scendere in cortile a giocare, passavo le domeniche pomeriggio con mio padre. Acquisiti i risultati delle partite del campionato di Serie A, mettevamo in scena una finta trasmissione radio: microfoni, mixer, piatto e una doppia piastra per registrarci. Il format consisteva in collegamenti dai campi principali per un sunto e un commento sulla partita appena terminata. Ovviamente nessuno di noi aveva visto la partita – per i gol bisognava aspettare 90° minuto – quindi inventavamo di sana pianta. Dato che eravamo solo in due e mia mamma partecipava occasionalmente, avevamo aggiunto altri inviati che interpretavamo a turno: Nannovjić, Batalock e Vincenzo, che poi in realtà, non erano altro che i soprannomi di alcuni miei amici. Nannovjić era il fratello più grande di un mio compagno di classe e per la sua età, era un ragazzo posato, maturo e riflessivo. Batalock abitava nel palazzo ed era allampanato totale. Vincenzo era Vincenzo, un bambino che faceva nuoto con me. Tra un collegamento e l’altro mandavamo brani musicali e qualche volta mio padre suonava il piano.
Con il passare delle domeniche e il rodarsi del programma, decidemmo di aggiungere anche alcuni spot per pubblicizzare le attività commerciali della zona. C’era il Mondo dei Giocattoli (puoi comprare anche lui, il proprietario), c’era l’edicola di Panebianco (allegria, simpatia, cortesia), e poi c’era Concetto Li Noce. Li Noce era il titolare di un’autocarrozzeria in via Grottasanta e lo spot è indelebile nella mia memoria. Iniziava con rumori che simulavano un incidente: confusione, martello, chiave inglese, bottiglie. “Oh no! Ho ammaccato la mia macchina” diceva il personaggio interpretato da mio padre. “Non ti preoccupare – intervenivo io – vai da Concetto Li Noce, ti riparerà la macchina anche se schiacciata come una noce”. Poi nuovamente rumori, ma stavolta veramente esagerati: un glang, glang, deng infernale. “Ma che fai?”, chiedevo allarmato e mio padre, al culmine della tensione emotiva rispondeva: “Schiaccio la mia macchina”.