Non per buttarla sul sentimentale, ma con la morte di Carlo Pedersoli – Bud Spencer, per me se ne va una icona pop. Prima di tutto quello che colpisce è la caratura dell’uomo: più o meno tutti sapevano del suo passato da nuotatore e del suo record sui 100 stile libero, ma pochi erano a conoscenza della sua partecipazione a tre Olimpiadi consecutive (Helsinki ‘52, Melbourne ‘56 e Roma ‘60) dei sui studi universitari (chimica, legge, sociologia) della sua passione per la musica che lo portò a firmare con RCA e a scrivere testi anche per la Vanoni, delle sue esperienze di lavoro in Sudamerica alla costruzione della Panamericana e poi in Alfa Romeo a Caracas. Un uomo che nella sua vita cinematografica ha quasi sempre interpretato l’omone buono e annoiato che si trova, suo malgrado, a risolvere problemi ed intrighi con pugni e ceffoni invece, scorrendo la sua biografia, quello che strabilia è la sua immensa voglia di vivere, di mettersi alla prova di sperimentare e di non fermarsi mai.
Dei 136 film girati, sicuramente i più noti sono quelli in coppia con Terence Hill. I due si completavano egregiamente ma nonostante Hill fosse l’estroverso, il combina guai, il sornione, quello veloce con la pistola e abile con le carte da gioco, per me non c’è stata mai storia: Bud Spencer a differenza di Hill aveva dalla sua il pugno sulla testa e lo schiaffone sul collo. La sparo grossa ma pugno e schiaffone sono marchi di fabbrica, gesti indelebili paragonabili alla camminata di Charlie Chaplin. I suoi personaggi hanno sempre avuto una dose di ironia e indolenza immediatamente riconoscibile. L’ultima battuta di Bambino in “Lo Chiamavano Trinità” quando scopre che gli agricoltori mormoni hanno fatto marchiare i cavalli sottratti al maggiore Harriman è memorabile: “Un momento – dice al detestabile Tobia, capo della comunità mormone che voleva rincuorarlo con qualche passo del suo libro sacro – va al diavolo tu, i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi antenati, le tue vacche, il tuo destino e tutto il resto”.
Comunque, non volevo buttarla sul sentimentale ma come me, almeno due generazioni sono cresciute con i suoi film. Ricordo con chiarezza le attese davanti alla tv, videoregistratore pronto, per il dittico di Trinità o per lo Sceriffo extraterrestre, che veniva trasmesso con regolarità da calendario gregoriano, il 26 dicembre, a sancire nella mia testa di bambino, l’importanza cinematografica e sociale della pellicola e il plusvalore del piccolo protagonista H7-25, che superava di mille punti l’odioso Marcellino pane e vino, anche lui programmato in tv durante le festività religiose. Come trent’anni fa, se mi capita di guardare alcune scene di quei film non riesco a restare impassibile: sarà quella tensione della sceneggiatura estremamente lineare ma efficace come una fiaba; sarà che alla fine, dopo sforzi immani, contro tutto e tutti, il bene trionfa sul male; sarà per quelle colonne sonore degli Oliver Onions che ti inchiodano lì con le loro melodie perfette. Insomma, mettetela come volete ma a me, quell’Italia di provincia di “Bomber” e di “Bulldozer” mi manca e lo so che è stereotipata e piena di cliché, che è solo uno schizzo a matita rispetto alla sovrabbondanza cromatica e alla complessità della società a cavallo tra ‘70 e’80, ma forse è proprio questa semplicità estrema che mi attrae. In questi film Bud Spencer ha sempre un passato misterioso, arriva in una nuova città, conosce degli emarginati, dei disadattati, dei vessati che vivacchiano di piccoli espedienti e tentano invano di ricostruirsi una dignità. Decide di aiutarli e il suo aiuto è prezioso perché quello che fa non è semplicemente allenarli per la partita di football o per l’incontro di boxe. Li allena alla vita, al sacrificio, al rispetto delle regole e quando hai dieci anni e ancora dovrai aspettarne altri dieci per leggere il Giovane Holden, Narciso e Boccadoro o Candido di Voltaire, di queste grandi lezioni di vita, alla fine, non puoi che farne tesoro.