Stamattina ho aperto gli scuri della finestra della mia camera da letto e l’ho visto. Era lì, tra due macchine parcheggiate, un bel pezzo di carbone profilato, scintillante e zuccheratissimo. Ho capito subito e sono stato catapultato 35 anni indietro. A casa mia, Babbo Natale non ha mai messo piede. Non ho indagato il perché, ma mia mamma ha sempre preferito la Befana, immagino per via della sua formazione marxista (di mia mamma), fatto sta che gli unici doni in periodo natalizio, di fatto, a me, li portava la Befana.
La sera prima, mia mamma mi aiutava ad appendere la calza e poi mi rimboccava le coperte. La dicotomia carbone – dolci era molto chiara nella mia testa. Avevo intuito che si trattava di uno spauracchio, però, non si poteva mai sapere. Quindi, prima di addormentarmi, ripercorrevo i fatti salienti dell’anno appena trascorso in cerca di eventuali nefandezze compiute e che avrebbero potuto compromettere il materializzarsi nella calza del regalo desiderato. Certo, qualcosa l’avevo fatta, ero un abile mentitore, dicevo le parolacce (avevo una scala di valori con all’apice vaffanculo e figliodibuttana, che si potevano utilizzare solo in casi estremi di offesa mortale) e continuavo a spararmi Acquarello di Toquino in cuffia nonostante il divieto dei miei. Il divieto non era dovuto a Toquino in sé, ma al fatto che lo ascoltavo a volume molto sostenuto e poi la notte non riuscivo a dormire e mi impressionavo perché sentivo i fischi nelle orecchie come dopo una serata in discoteca e quindi svegliavo i miei. Insomma, nel complesso mi ritenevo un bambino vivace ma sostanzialmente buono. Figurati – pensavo – se la Befana è così fiscale da prendere in considerazione queste minchiate con tutti i problemi che ci sono nel mondo. Quell’anno avevo chiesto un nuovo modello di locomotiva per il mio trenino elettrico, quella vecchia non andava più tanto bene. Per farla funzionare, occorreva metterla nel freezer per almeno due ore. Così almeno, avevo appurato empiricamente dopo ore e ore di esperimenti in cameretta.
Il mattino successivo mi sono svegliato presto – eccitatissimo – mi sono diretto scalzo verso la calza che adesso era tesa e mostrava un rigonfiamento. C’ho infilato la mano dentro e ho estratto un pezzo di carbone. È stato uno shock: il cuore in gola, le ginocchia che tremano, gli occhi umidi. Che fare? Ho processato velocemente i dati a disposizione, ho pensato all’onta, al dispiacere che avrei provocato ai miei genitori, al fatto di essere segnato a vita, alle ingiustizie. Ho alzato silenziosamente la serranda, ho aperto la finestra della cameretta e ho scagliato quel pezzo di carbone più lontano che potevo. Trafelato ho indossato le pantofole e mi sono diretto in cucina. Cercavo di apparire normale, come se non fosse successo nulla, procedevo alternando sbadigli finti e gesti per sgranchirmi le braccia. Entrato in cucina non ho fatto caso alla scatola confezionata con una carta regalo che stava sul tavolo, dietro la mia tazza con il latte, mi sono diretto verso la bottiglia dell’acqua, avevo la gola chiusa. Mia mamma mi ha chiesto curiosa: «Emiliano, allora? Cosa ti ha portato la Befana?» Ho deglutito il sorso d’acqua e senza guardarla negli occhi ho risposto: «ma… niente, ancora non è passata.»