Io a Fontane Bianche mi sento costretto, imprigionato, esattamente come si dovevano sentire Steve McQueen e Dustin Hoffman in “Papillon”, rinchiusi in quel carcere nella Guyana francese. Qualsiasi cosa voglia fare sono costretto a prendere la macchina, anche se poi, di cose da fare non ce n’è. Il forno è chiuso, l’edicola è chiusa, è rimasto il bar con il parcheggio regolato dalle leggi della termodinamica e qualche putìa con i prezzi dei negozi degli aeroporti internazionali.
Camminare a piedi è impossibile e non tanto per la quantità di rifiuti ai lati della strada quanto per la totale assenza di marciapiedi che compaiono sono in alcuni punti di quello che si chiama viale dei lidi ma che di viale non ha proprio un bel niente. I marciapiedi, quando ci sono, sono stretti, spesso cacati o con uno scooter posteggiato sopra. Passo ore in auto, incolonnato in fila e il mare praticamente non si vede – fatta eccezione per i dieci metri della curva prima della Spiaggetta – probabilmente Fontane Bianche è l’unica località balneare nel mondo che può vantarsi di questo terribile primato. Ville, ristoranti, caseggiati abbandonati, parcheggi mostruosi occupano tutta la visuale, lo sguardo non può perdersi verso l’orizzonte e rimane confinato lì, tra una striscia pedonale cancellata e una lapa che vende cipudda di Giarratana.
Nell’aria l’olezzo di arancino e olio solare è così forte che bypassa anche il filtro del riciclo dell’aria condizionata della macchina e avvolge tutto l’abitacolo. Passo ore incolonnato in fila mentre ai miei lati transitano turisti disperati con gli ombrelloni, le sdraio e le maschere quelle di Decathlon, modello Giulio Verne, sembrano comparse di The Walking Dead, solo che questi sono in costume o in pareo. I servizi turistici sono scadenti, arraffazzonati, prestati senza amore. Il flusso di gente è straordinario e implicherebbe accoglienza impeccabile, ma se ordini una birra ti arriva calda, se ne ordine due, ti arrivano spaiate, i gelati confezionati sono sempre finiti e se ordini una Coca Cola quelli ti portano la Fanta.
I mezzi pubblici sono un miraggio, ma da qualche giorno c’è una nuova pensilina per aspettarli e sperare che passino. La pensilina è stata istallata dai tecnici comunali, accanto ad un banchetto abusivo che offre servizi turistici all’ombra di un parcheggio che grida vendetta, un orrendo ecomostro al centro di tanti progetti di democrazia partecipata regolarmente abbandonati.
Passo ore incolonnato in fila e attraverso i finestrini, dentro le altre macchine, vedo gente che urla, alcuni cantano hit di Gabry Ponte, i bimbi piangono, le sigarette fumate nervosamente, migliaia di cellulari in mano, vocali, messaggi testuali. Tutti suoniamo il clacson, qualcuno prende la così detta scorciatoia, si inerpica per una stradina ancora più stretta e più congestionata ma poi cambia idea e tenta una complicatissima inversione ad U.
Giro lo sterzo come un forsennato per scansare ostacoli, pedoni in mezzo alla strada, auto a spina di pesce e per assecondare il flusso caotico che si muove scomposto. Spesso sono costretto a fermarmi, l’attesa si fa più lunga del solito, la fila non scorre. Un torpo col Suv ha deciso di fermarsi davanti alla Capannina e comprare le pizze. Il traffico è paralizzato ma lui non batte ciglio, anche la gente incolonnata è stranamente tollerante, percepisco una forma di solidarietà nei suoi confronti, io chiudo gli occhi per non vedere quelle orrende costruzioni abbandonate, alzo il volume della musica e vorrei tanto essere come lui.
