Mi sono svegliato per via di un rantolo preoccupante, ho avuto paura, pensavo di essere io, ma riprendendo lucidità ho capito che proveniva dalla brandina accanto alla mia. Era Leo, forse stava soffocando. Quella notte alloggiavamo nella sala prove sopra il club dove ci eravamo esibiti, il proprietario ci aveva chiusi dentro, sarebbe venuto a svegliarci l’indomani, alle dieci. Sul soffitto, una gigantesca ventola per il riscaldamento sputava fuori aria caldissima che si mescolava all’odore pungente del sudore del metallaro – tipico di molte sale prova – e al tanfo di una moquette talmente vecchia e polverosa che anche gli acari che la abitavano avevano imparato a suonare Kill‘Em All. Erano le cinque del mattino, avevamo mezza bottiglietta d’acqua in due e saremmo dovuti restare lì dentro altre cinque ore.
Il fatto è che ero stato abituato bene, perché prima che iniziassi a fare il musicista – nel senso di tentare di mantenermi con i proventi della musica, disco fuori, tour promozionale e tutto il resto – avevo vinto con la band un concorso musicale a Bologna. Iceberg si chiamava e oltre a un lauto premio in denaro – che ci permise di registrare un Ep di 5 brani che fu recensito bene e ci rese appetibili ad alcune case discografiche indipendenti – ci garantì la partecipazione ad Enzimi, un bellissimo festival che si svolgeva ogni anno a Roma. Fu come l’avverarsi di un sogno, perché quelle 24 ore romane furono esattamente quello che io avevo sempre immaginato dovesse essere lo standard di una carriera musicale. Arrivammo in furgone da Bologna e ci trovammo davanti un palco enorme montato in Piazza dei Cinquecento, davanti alla Stazione Termini. Ci fu assegnato un camerino: dentro c’erano divani, specchi, il cartello alla porta con il nome della band e una montagna di asciugamani soffici e profumati. Il soundcheck fu meticoloso e accurato e tutto lo staff era gentile con noi e pronto a esaudire qualsiasi richiesta, Quella sera avremmo aperto il concerto dei Thrills, un gruppo irlandese dall’attitudine californiana, che quell’anno era sulla cresta dell’onda con il singolo Big Sur. La serata fu meravigliosa, il concerto tirato ed emozionante. Trascorremmo la notte in un hotel 4 stelle, tutto legni pregiati e acciaio, piscina sul tetto e colazione alla carta. Ero in estasi.
La realtà però si dimostrò differente. Stavamo fuori dal giovedì alla domenica, macinavano chilometri di autostrada e viaggiavamo leggeri: strumento, amplificatore e un bagaglio personale. Bologna, Parma, Piacenza, Modena, Firenze, Prato, Perugia, Siena, Pisa, Genova, Torino, Milano, Padova, Verona, Forlì, Rimini, Ancona, Pescara, Fano, Roma, Napoli, Salerno, Potenza, Cosenza, Bari, Reggio Calabria, Siracusa, Enna, Palermo e tanta, tantissima provincia.
Ora, in quel periodo della mia vita, girare l’Italia in lungo e in largo, suonare nei club dei piccoli circuiti indipendenti, davanti a un pubblico meraviglioso e sempre diverso, era il massimo che potessi chiedere. L’emozione che provavo quando degli sconosciuti si mettevano a cantare le nostre canzoni era indescrivibile e forse, ancora più forte di quando senti per la prima volta un tuo brano alla radio. Il problema era andare a dormire, o almeno, quasi sempre era quello. Nessuna sostanziale differenza tra nord o sud; città o provincia; festival o data singola: lo standard di alloggio a questi livelli era terribilmente scadente e a nulla serviva la scheda tecnica che il nostro management inviava regolarmente ai promoter delle serate. Non è che avessimo grandi richieste, il minimo indispensabile, giusto un camerino per poterci cambiare, dell’acqua e qualche lattina di birra, una cena per quattro, un parcheggio custodito per il furgone, un punto luce per il banchetto con il merchandising e un alloggio dignitoso.
Invece: alberghi senza stella davanti alle stazioni, bagni fatiscenti al piano, in quattro in una stanza di B&B con un letto
matrimoniale e una culla; appartamenti da dividere con sconosciuti, ospiti di un santone che voleva convertirci, nel salotto della casa dei genitori (in pigiama) di un promoter locale, posti letto sostituiti da amache, case di campagna diroccate e alloggi del personale stagionale. Più passavano i giorni, più esperienza accumulavamo, più diventavamo disillusi. Una volta in Veneto ci scaricarono in una casa di campagna in mezzo al nulla. Dentro ci saranno stati 40 gradi, nel frigo rotto c’erano dell’acqua, una birra Moretti da 66 già aperta e tre confezioni monodose di marmellata di albicocche. Alle finestre sbarrate, dei cartelli a lettere cubitali: NON APRIRE VESPE ASSASSINE!!!
Ogni sera mi disperavo e giuravo agli altri che sarebbe stata l’ultima volta, ogni mattina mi svegliavo per primo con la voglia irrefrenabile di andare a suonare nella prossima città. Sì perché in verità, secondo me, non c’è nulla di più formativo che andare in tour. Non c’è stage, non c’è intership, non c’è Erasmus che tenga. Il mio unico dispiacere è stato di non averlo potuto condividere con Stefano. La sua uscita dal gruppo qualche mese prima dell’incisione del nostro primo album, ebbe per me strascichi molto peggiori di quanto la dipartita di John Frusciante ebbe per i Red Hot Chili Peppers. Anche perché i RHCP presero Dave Navarro che è un grande chitarrista e si spararono subito un album pazzesco come One Hot Minute, noi invece ci ritrovammo con un batterista che sì, era anche bravo, però non aveva nulla a che fare con noi, con il nostro modo di essere, di vedere le cose, con l’ironia e nemmeno con la nostra musica. Insomma, con l’uscita di Stefano in un colpo solo perdemmo un batterista straordinario, un autore raffinato e un amico sincero e questo, per come la vedo io, fu l’inizio della fine.
Certo, c’era Leo, indistruttibile, indefesso, sconvolgente, irritante, ingenuo, un comunicatore a sua insaputa, un animale da palcoscenico inconsapevole. Quando lo conobbi, viveva in una specie di limbo: era un pallanuotista bistrattato dai compagni di squadra per i suoi interessi culturali e un rozzo chitarrista hard rock, inviso ai metallari duri e puri. Leo però celava una sensibilità sorprendente perchè dalla sua aveva questa cosa della spontaneità che rendeva tutto facile, una vocalità niente male che maturò nel corso del tempo e una musicalità genuina che esplose inarrestabile dopo pochissime prove insieme. Diventammo amici e con il sommarsi delle date, imparammo anche a conoscerci meglio e a stemperare i limiti reciproci. Io sorvolavo sui momenti di black out delle sue sinapsi, tipo quando improvvisamente, dalle parti di Scordia, in preda a deliri razzisti e paure immotivate, decise di mimetizzarsi spacciandosi per siciliano e con forte accento bolognese diceva a tutti quelli che incontrava “Uelà! Sciamo tutti ziziliani!”; lui invece glissava sui miei atteggiamenti dittatoriali, le mie fobie sullo sporco, i germi, i piatti di pasta al sugo e le sparate da prima donna e mi lasciava sempre il giaciglio migliore.
Dopo le prime date ognuno di noi aveva preso le proprie contromisure per sopravvivere. Io mi portavo dietro un trolley carico di cambi, un sacco a pelo e dei guanti di lattice; Leo aveva optato per una soluzione minimal: valigetta 24 ore contenente 3 paia di mutande, una t-shirt (di solito era quella con la scritta Zanza) e un cuscino. A differenza mia, che dovevo cambiarmi ogni sera, Leo sul palco praticamente non sudava, inoltre, aveva mutuato non so dove e poi trasformato in un dogma, quella che lui chiamava la “tecnica della ripresa” secondo la quale, un indumento indossato per 24 ore, ritorna intonso (si riprende, appunto) se posto tutta la notte fuori dalla finestra. La tecnica vale per tutti i capi ad eccezione delle mutande.
Si chiama gavetta ed è sempre spietata. Solo pochi riescono a farne tesoro, la maggior parte si perde per strada, non regge, si confonde, prende altre direzioni, non ci crede fino in fondo. Spesso non basta nemmeno crederci fino in fondo. È quello che è successo a noi. Io a dire il vero avrei continuato ancora un po’, nonostante le trasferte di seicento chilometri, i casini coi soldi, le cene precotte e i materassi alla Trainspotting. Avrei continuato per sentire ancora il brivido prima di iniziare un concerto, la soddisfazione che ti prende quando apri il live di una band americana o europea e tutto il pubblico è lì per ascoltare loro e non ti si fila per niente ma poi, pezzo dopo pezzo, riesci a conquistarli e alla fine, qualcuno si compra pure il tuo album, viene al banchetto e ti fa i complimenti. Niente da fare, la nostra avventura musicale si andò ad esaurire per varie ragioni che adesso, a distanza di più di dieci anni, non avrebbe nemmeno senso rivangare. Discutemmo io e Leo, senza mai litigare, punti di vista differenti, soluzioni inefficaci e troppo rispetto reciproco. Con il batterista manco ci parlavo più, il suo apporto era sempre stato del tutto pleonastico.
L’ultima data fu in Calabria, sul mare, ad agosto, dalle parti di Roccella Jonica. Sapevo che quella sera avremmo suonato male, che la malinconia che mi portavo dentro avrebbe condizionato l’esibizione, ma alla fine nessuno si accorse di niente, il pubblico applaudiva convinto e noi, pezzo dopo pezzo, terminammo la nostra scaletta. Il batterista smontò la sua roba e nottetempo tornò dalle sue parti, era campano, io e Leo restammo fino alla chiusura per farci dare i soldi. Ci portarono in un appartamento fatiscente, avremmo dovuto passarci la notte dividendolo con il personale del locale. Leo scelse per se un buon materasso e poi, come sempre, lo cedette a me. Era l’ultima volta, apprezzai il suo gesto ma invece di coricarmi gli dissi: “Dai Leo, raccattiamo le cose e andiamocene a Siracusa, ci vediamo l’alba dal traghetto”.