Tubi innocenti

Caro Toi, non lo so, ci sono dei luoghi che hanno una sacralità che andrebbe rispettata e secondo me il Teatro greco di Siracusa è uno di questi. Nulla contro il pop malinconico della Mannoia o contro i  tour della speranza di vecchie glorie finite nel turbinio delle features per sbarcare il lunario. Viva la musica e l’espressione artistica in tutte le sue declinazioni. Viva Mick Jagger a Villasmundo, il televoto di Geolier, il flauto di Pan degli Inti Illimani e la poetica di Lello Analfino. Il punto è: siamo sicuri che il Teatro greco o la Scala di Milano o il Festspielhaus di Bayreuth siano i posti più adeguati per farli esibire dal vivo? Io sinceramente penso di no. Ma non perché non siano bravi o non siano all’altezza. Per quel che mi riguarda c’è più poesia, arte ed emozione in mezz’ora di Jagger e Richards ubriachi che maltrattano una chitarra con l’accordatura aperta e per di più scordata, che due ore e mezza di noia in attesa dell’intervento del Deus ex machina. Non è una questione puramente estetica e di gusti, è una questione di appropriatezza di genere e luogo. 

Che il Teatro sia vecchio e malconcio è cosa risaputa, che sessanta rappresentazioni delle tragedie classiche contribuiscano alla sua lenta agonia pure. Perché dunque aggiungerci il carico da undici? Perché proseguire sulla logica dello sfruttamento totale del monumento che tanti danni ha fatto e sta facendo intorno a noi e nel mondo intero? I limiti purtroppo servono e dovrebbero garantire tutti: dalla velocità in autostrada al periodo del mucco al mercato del pesce, dall’immissione in atmosfera di veleni al limite degli ombrelloni del lido privato sulla battigia. Certo, danno fastidio a molti, qualcuno li reputa perfino odiosi e offensivi e alcuni probabilmente sono inutili, farraginosi e datati, ma il concetto non cambia. 

Trasformare il Teatro greco in una struttura polivalente dove si può fare ogni cosa, dal mio punto di vista mortifica il monumento e lo declassa a sala parrocchiale. Ci è rimasta solo questa eccellenza e che diamine, proteggiamola e tiriamocela un po’. Qua si sono scandalizzati perché la Regione ha aumentato gli oneri di concessione che erano irrisori e offensivi. Poi certo, le eccezioni ci possono anche essere, vuole venire Paul McCartney a fare l’ultimo live della sua vita con Ringo e gli ologrammi di John e George gestiti dall’intelligenza artificiale e che fai non glielo concedi? Ma certo che sì! E il tour che la Mannoia fa nei palazzetti di Bitonto, Taranto, Avellino? No, secondo me no. Più consona l’Ara di Ierone e i suoi tubi innocenti, che già, voglio dire, è tutto grasso che cola, sempre dentro a un Parco Archeologico sei.

Se mancano come è vero che mancano strutture aggreganti, palazzetti, auditorium, luoghi della cultura pop, che la politica e gli amministratori si rimbocchino le maniche e trovino i fondi per realizzarle anziché indignarsi.

Io sono abbastanza convinto, e credo che possa valere per il mare, le foreste, la Marmolada, Venezia e anche per il Teatro Greco di Siracusa, che occorra mettere un limite allo sfruttamento esasperato delle risorse. Una sola cosa dovremmo fare con il nostro gioiello di calcare, metterlo nella condizione di resistere altri mille anni e se questo scontenterà qualche sindaco o qualche impresario o qualche regista megalomane delle tragedie, credo che potremmo farcene tutti una ragione.

Il Nanno is back!

Dice che quando Massimo Ranieri ha intonato “Se bruciasse la città”, il Nanno col giubbotto blu, con la diavolina che si era portato da casa, ha appiccato un incendio tra gli scaloni del settore H del Teatro Greco e lui, Ninni, Silvana, Cugno, le ragazze romene e lo zio Iano si sono messi a ballare in uno stato alterato di coscienza, tra Jim Morrison e un baccanale dionisiaco, e buttavano voci tipo: “Cunnutu!”, “Ietta sancu” e “Aanti!!!”.

Quando, dopo venti minuti buoni, sono arrivati quelli della sicurezza con gli estintori per spegnere tutto e accompagnarli fuori, il Nanno col giubbotto blu ha detto: “A chista democrazia ma chiama?” e poi, rivolto verso l’artista ha gridato: “Massimo, riccillu tu…”.

Ranieri non aveva capito bene la situazione, non ci vede bene da lontano, e ha salutato con la mano e fatto un “” napoletano, così, per sdrammatizzare. Quello della sicurezza sembrava interdetto e il nanno, prendendo la palla al balzo, gli ha detto: “Visto? Noi siamo dionisiaci… no come a tia ca sì cunnutu e apollineo…” gli ha detto un ammuttune e poi e scappato via dall’ingresso che da sulla panoramica.  

Superlativo, Assoluto

Partimmo in tre, io, Stefano e Simone, direzione Roma. Era il febbraio del 1995, eravamo all’ultimo anno del liceo scientifico, vivevamo di musica e quel concerto dei REM, in tour con l’album Monster, non ce lo saremmo persi per nulla al mondo. Intercity notte o Freccia d’argento, adesso non ricordo, tanto, sempre dodici ore ci volevano per arrivare a Roma. Ci incontrammo alla stazione di Siracusa, era sera, mi aveva accompagnato mio padre. Avevo un borsone con qualche cambio, dei panini che mi aveva preparato mia mamma e una bottiglia d’acqua. Saremmo rimasti a Roma un paio di giorni ospiti di Lele e Sebastiano. Loro erano già studenti universitari, vivevano da soli in una appartamento minuscolo vicino alla facoltà di Sociologia. Il treno era quasi vuoto, procedeva con lentezza esasperante, ma a diciotto anni, il tempo ha un valore completamente differente e accelera e rallenta senza che nemmeno te ne accorgi.

Di tempo ne è passato perchè oggi Michael Stipe ha compiuto sessant’anni. Con la sua musica mi ha accompagnato per trenta. Dei REM ho sempre invidiato la semplicità delle armonie e allo stesso tempo, la forza dirompente e la capacità di comunicare in maniera del tutto personale il mondo che stavamo vivendo. Un po’ college rock, un po’ impegnati, un po’ scazzati ed enigmatici, i REM riuscivano a farmi sentire parte di qualcosa di più grande e poi c’era Stipe, che aveva un modo di esprimersi sui generis, molto distante dai canoni del pop di allora, una voce a tratti sgraziata e proprio per questo irresistibile.

Di tutti i concerti dei REM che ho visto nella mia vita, quello che ricordo meglio e con maggiore emozione è proprio quello del 1995. Quell’avventura tra amici, quelle serate romane e l’eccitazione di assaporare la vita universitaria, la magia della musica dal vivo, il desiderio di suonare, i Grant Lee Buffalo che aprono il concerto, il sentirsi liberi e indipendenti, la determinazione di andare via da Siracusa per vivere emozioni come questa e quella frase, sentita al ritorno, in stazione, una frase urlata da uno sconosciuto all’indirizzo di un altro che diceva: “Levatillu su spacchio r’orecchino co pentente ca sta parennu n’arcigay!”. Così, superlativo, assoluto.  

C’era una volta in via Brenta

L’appuntamento era davanti a Sweet Sweet Way, un pomeriggio del marzo del 1991. Ad aspettarmi lì c’era Piero, con lui sarei andato a fare la prima prova con la mia prima band. Qualche giorno prima avevo ricevuto una sua telefonata al fisso di casa, si presentò ricordando i comuni trascorsi tennistici alla Cittadella e mi chiese se era vero che suonassi il basso, perché lui stava mettendo su una rock band. Era il momento che stavo aspettando da quindici giorni, da quando cioè, vista l’inflazione di chitarristi nelle scuole siracusane, avevo deciso che avrei suonato il basso elettrico e avevo sparso la voce in giro. C’era solo un piccolo problema: io non possedevo alcun basso elettrico.

Comunicai la notizia in famiglia, i miei erano entusiasti. Mio padre, che ha suonato il piano e il sax tenore con Gli Scettici, coi Mammasantissima e con altre formazioni locali, mi disse: “non ti preoccupare, ora andiamo a cercare un basso”. Aspettammo l’orario di apertura e ci fiondammo da Moscuzza alla ricerca di uno strumento di seconda mano, economico e per principianti. La scelta cadde su un Sakura bianco (modello Precision) appartenuto ad un amico di mio padre. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Uno strumento modesto ma con una caratteristica unica: sulla paletta, il logo Sakura era stato coperto con una borchia d’ottone con l’incisione “Fender”. La trattativa fu veloce e per cinquantamila lire, lo portai a casa dentro una custodia morbida usata.

Mi presentai all’appuntamento in perfetto orario, andai in motorino, con le cinghie della custodia che mi segavano le spalle e l’inseparabile zaino militare a tracolla con la scritta “Kiss Pack You See” con dentro un quaderno per segnare gli accordi e un jack. Piero era già lì e insieme ci dirigemmo verso la sala prove a conoscere la band. Provammo nel salotto della casa di Stefano, completamente liberi, coi tappeti sotto i piedi, senza particolari accorgimenti per il volume, senza sordine di alcun tipo. Una cosa che trovai inconcepibile e che mi faceva sentire uno dei Rolling Stones, in quei set approntati negli studi rinomati di Los Angeles, con i divani, le piantane design, le modelle e il camino con la schermatura in vetro temperato.

La prima prova fu un’incessante esecuzione della durata di circa tre ore di With or Without You degli U2. Un turbinio di sedicesimi e di cori in falsetto che ci prosciugò tutte le energie ma che ci convinse che sì, la band poteva nascere: il feeling era da rodare, certo, ma le alchimie, quelle erano giuste, gli sguardi d’intesa sostituivano le parole e c’erano tutti i presupposti per costruire un repertorio vincente. Ci demmo appuntamento alla settimana successiva con l’obiettivo di finire l’arrangiamento del pezzo degli U2 e di cominciare a impostare un trittico dei Pink Floyd sul depresso andante: Time, Comfortably Numb e Wish You Were Here.

In verità, gli unici che sapevano suonare erano Stefano e Piero: il primo studiava batteria e pur essendo un ragazzino, aveva già una conoscenza musicale mostruosa, trasmessagli da suo papà, lo Zio Peppe; il secondo, era un virtuoso della tastiera, aveva alle spalle studi classici e nei momenti di cazzeggio, attaccava a suonare la Marcia Turca di Mozart a velocità supersonica, con le facce buffe tipo Amadeus di Miloš Forman e ci faceva morire dalle risate. La cosa ha innescato in me un riflesso pavloviano e ancora adesso, quando qualcuno la esegue – mi è successo di recente a un lunch concert alla Filarmonica di Berlino – mi commuovo e poi rido con le lacrime agli occhi. Poi c’ero io, che mi presentai il primo giorno con il basso accordato ma poi, non sapendo metterci mano e per paura di peggiorare le cose, decisi di non toccare più quelle chiavi per almeno un mese, causando alla band enormi problemi d’intonazione. Giovanni era il chitarrista, un’anima folk e un’attitudine da falò e da bionde trecce, occhi azzurri e poi c’era Antonio, il cantante e leader carismatico.

L’entusiasmo era alle stelle e raggiunse il suo picco quando mio padre, una sera, tornato a casa dall’ambulatorio, mi disse: “Vi ho trovato una serata, il 21 giugno al Castello Tafuri a Portopalo, è una festa di beneficenza della Croce Rossa, aprirete un nostro concerto e potrete suonare tre pezzi.”. Io ero felicissimo ma misi subito in chiaro le cose: “Vedi che noi abbiamo quattro pezzi.”. “Allora ne farete quattro.” – tagliò corto mi padre.

Le due settimane che precedettero il concerto furono contraddistinte da prove estenuanti e meticolose, inoltre, dato che avremmo eseguito dei brani dei Pink Floyd, decidemmo che sarebbe stato il caso di presentarsi sul palco con almeno due coriste. La scelta cadde su Barbara e Carmela, nessuna delle due aveva alcuna esperienza canora, ma del resto neanche noi, per cui ci sembro una scelta ponderata.

Finalmente arrivò il grande giorno. Ci incontrammo di pomeriggio per un breve soundcheck: avremmo suonato con gli strumenti e l’amplificazione del gruppo di mio padre e provammo tutti gli attacchi e i finali dei pezzi. A quell’epoca i miei avevano ancora un camper, residuato di vacanze in famiglia in giro per l’Europa, che mio padre sfruttava in queste occasioni per il trasporto strumenti. Divenne il nostro quartier generale, rimanemmo rintanati tutto il pomeriggio lì dentro a bere Coca Cola – forse trafugammo una bottiglia di prosecco e qualche birretta dal bar del Castello – a fumare qualche sigaretta ed a fare progetti per il futuro. Sì, perché nel frattempo, questa notizia che andavamo a suonare in trasferta, si era sparsa in giro e cominciammo a ricevere offerte e richieste per altre esibizioni. Per quell’estate avevamo già cinque o sei feste di compleanno e un fitto calendario di prove per incrementare il repertorio con nuovi pezzi di REM e Police.

Di quel primo concerto esiste da qualche parte un VHS ma non lo vedo da decenni. Non so dire con esattezza come suonammo e al dire il vero, non è che la cosa sia così importante. Eravamo una band di quattordicenni alle prime armi e alle prese con i Pink Floyd, davanti a un pubblico intervenuto per ballare l’hully gully. Ricordo che alla fine dell’esibizione ci mettemmo in circolo e ci abbracciammo forte, fu un gesto naturale e spontaneo. A poco a poco, i ragazzi andarono via con i loro genitori, io aspettai la conclusione della serata e aiutai mio padre a smontare gli strumenti. Tornammo lentamente verso casa, in camper, i miei chiacchieravano, io mi sdraiai sul letto della mansarda, per un attimo pensai alle due materie che avrei dovuto recuperare a settembre ma mi addormentai immediatamente, ero felice ed esausto.