Era una cosa che mi ronzava in testa da qualche anno, prima in maniera prepotente, poi, con il passare del tempo, un po’ si è andata affievolendo, ma non mi ha mai abbandonato, è sempre rimasta un’onta indelebile nella mia vita. Così l’altro giorno, da Dechatlon, quando le ho viste, identiche, in quel tubo da quattro, con la scritta US Open 2015, non sono riuscito a trattenere lo stupore: dovevano essere mie.
Ero andato lì per comprarmi uno spray lubrificante per la catena e i freni, perché, da qualche tempo, ho ripreso ad andare in bicicletta e dato che sono uno che si sveglia presto, ho cominciato ad assaporare queste uscite a capo di mattina, senza meta. Giro i quartieri uno alla volta, alcuni giorni con la musica nelle orecchie, altri senza, per gustarmi i silenzi della città che si risveglia. Osservo le serrande dei negozi chiusi, quelli che vanno a lavorare presto, i primi caffè al bar e quelli che arrivano in macchina e buttano la spazzatura a muzzonei mastelli di un condomino qualunque. In alternativa, mi dirigo verso la pista ciclabile, che a Siracusa è una striscia di terra battuta e asfalto rovinato che si snoda sull’incantevole scogliera di levante. La mattina presto, la pista già brulica di sportivi assortiti e di passeggiatori solitari, tra di loro vige un grande rispetto reciproco e ci si saluta ogni volta che ci s’incrocia come fanno gli svizzeri in Engadina: “guten morgen”, “guten tag”. A me piace arrivare fino alla fine del percorso e poi ritornare indietro. Quando tira il Greco e Levante l’andata è una faticaccia ma poi, al ritorno si vola ed è una sensazione bellissima. Ultimamente, sulla pista, tra la fine della Mazzarrona e la tonnara di Santa Panagia, è comparso un branco di cani randagi. Non so dire se siano malvagi come sembrano o fanno solo finta, ma un paio di volte sono sbucati dal nulla, appostati come gli indiani nei film western, e mi hanno rincorso abbaiando come pazzi per quasi cento metri, una distanza che se hai il vento contro, sembra non finire mai. Un’altra volta mi sono fermato per soccorrere una ragazza a piedi, era in lacrime, avevano tentato di azzannarla ma lei era riuscita a fuggire e adesso era sotto shock, così abbiamo fatto un pezzo di strada insieme fino a quando lei non ha preso una delle uscite laterali all’altezza di viale Tunisi e se n’è tornata a casa.
Da Dechatlon tra il reparto ciclismo e quello tennis c’è un negozio intero. Non so perché sono passato da quel corridoio, io in effetti non gioco a tennis da anni, non ho più nemmeno la racchetta. Da adolescente l’ho praticato con amore incondizionato, passione genuina e risultati trascurabili, se si esclude un rovescio a una mano, liftato, in backspin, che ancora oggi mi dà grandissime soddisfazioni sul tavolo da Ping Pong. Con Enrico, il cugino malacarne, ci allenavamo tra la Cittadella e il Matchball e poi interminabili pomeriggi e domeniche mattine nei campi più disparati: quello del condominio dei miei nonni e quello del fu glorioso Park Hotel di via Filisto. Poi, come molte cose nella mia vita, la passione si è andata a esaurire e per anni non l’ho più seguito. Donatella invece è rimasta un’appassionata e non si perde nemmeno un torneo in tv. Anche lei in passato ha giocato, ma a quanto dice, con risultati perfino peggiori dei miei.
Flushing Meadows, nel Queens, è un impianto gigantesco, da Manhattan ci arrivi in quarantacinque minuti di metro e se sei fortunato, senza bisogno di cambiare linea. Passati i tornelli si è catapultati in una specie di realtà parallela con decine di migliaia di persone che affollano gli spalti e un numero sconsiderato di negozi che vendono merchandising di ogni tipo. In questo contesto, l’elemento più importante non è il tennis, è il cibo, non c’è storia. Centinaia di punti di ristoro dislocati nell’impianto sfornano pietanze di tutti i tipi, h24. Ci sono gli hot dog, gli hamburger, i corn dog, ma anche i noodles orientali, le insalatone, il cibo macrobiotico, il guacamole, il pollo teriyaki, le tortillas, i burrito, i nachos, il fish and chips, la pizza, il kebab, i falafel, la babaganoush, i frozen yogurt con la frutta, i mac ‘n’cheese, le cheese cake, i coni gelato da 500 grammi l’uno quello piccolo, i caffè americani, l’espresso doppio, il cappuccino, lo champagne e milioni di litri di soda e birra. L’Arthur Ashee è uno stadio con 23mila posti a sedere e all’esterno di ogni anello, si susseguono una quantità infinita di punti ristoro, di fronte a ognuno di questi e parcheggiata una roulotte. A differenza del baseball, dove con il biglietto della partita puoi accedere gratuitamente ai buffet pantagruelici e rifornirti di cibo ogni volta che ne hai voglia, qui si paga tutto. La gente si prende il suo salsicciotto, le sue patatine e la bevanda che ha scelto e poi si dirige verso le roulotte. La prima volta che le ho viste ho pensato che si trattasse delle casse per pagare, c’era tutta questa gente in fila e io non riuscivo a darmi altra spiegazione. Non è così: mi trovavo a cospetto dell’eden della sassaemayoness. Sono dei parallelepipedi su due ruote – poco più piccoli di una comune roulotte quattro posti – all’esterno, in bella mostra, ci sono dei dispenser colorati; all’interno, quintalate di ketchup, mayonese, sottaceti, cetriolini in agrodolce, mostarda, salsa barbecue e altre salse speziate che servono a lubrificare il salsicciotto e ti permettono di mandare giù il boccone con più facilità. Ogni due ore passa un addetto con un mezzo elettrico, una specie di Apecar che fa la Chevrolet, aggancia la roulotte ormai svuotata dalle salse e la sostituisce con una piena.
Il bello del biglietto diurno per una giornata di cartellone di US Open è che una volta dentro, puoi andare a vedere quello che vuoi. Hai dei posti assegnati sulla tribuna dell’Arthur Ashee, il campo centrale e questi posti sono tuoi per tutto il giorno, ma tu sei libero di andare e venire, entrare negli altri 32 campi e vederti tutte le partite che ti interessano. La giornata scorreva placida, passavamo da un campo all’altro, ordinavamo da bere, quando improvvisamente: tack, al volo. È una circostanza più unica che rara: tu sei seduto tra gli spalti, uno dei giocatori stecca la risposta o spara uno smash all’incrocio delle righe e la pallina schizza via, supera il rettangolo di cemento, disegna una parabola, si perde un momento nella luce del sole, tu hai giusto il tempo di alzare un braccio e tack. La pallina è nella tua mano. Il pubblico ha iniziato ad applaudire e fischiare e io mi sentivo addosso gli occhi di tutti. Ho guardato in basso e c’era il raccattapalle che mi fissava, io ho percepito l’accenno di un gesto, una cosa come: “ouh mpare, ietta sa pallina, fozza”. Forse la paura di apparire agli occhi di tutti come l’italiano a corto di senso civico, fatto sta che ho aperto la mano e puf, l’ho rispedita dolcemente in direzione del raccattapalle. Donatella mi ha fulminato con lo sguardo e mi ha detto: “Ma perché?”. “Non lo so che mi è preso – ho risposto – tutti mi guardavano… mi sono cassariato, scusami, sono davvero mortificato”. “Ma dai – ha esclamato lei – ci portavamo a casa una pallina di uno Slam… ma quando ci ricapita”.
“Ma il raccattapalle mi è sembrato così perentorio”.
“Ma per favore… quelli te la chiedono indietro, ma nessuno gliela ridà”.
Un senso di frustrazione e inadeguatezza si è impossessato di me e a nulla sono valsi gli sparuti applausi di un gruppo di gentlemen ben oltre la settantina che avevano apprezzato il mio gesto signorile. Mi sentivo svuotato, come uno che non è riuscito a cogliere un’occasione. Donatella se n’è accorta e ha cercato di rincuorarmi, mi ha detto che in fondo non era successo niente, che era solo una pallina e ha suggerito di cambiare aria, prenderci qualcosa da bere e cambiare campo.
Quell’anno il torneo femminile fu caratterizzato dalla sorprendentemente finale tra due tenniste italiane: Flavia Pennetta e Roberta Vinci. La Pennetta si aggiudicò il trofeo ma la Vinci, in semifinale, aveva battuto la più grande e la più forte di tutte, Serena Williams. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa del genere e nemmeno noi, ma ciò nonostante, per spirito patriottico, ci siamo diretti verso il campo 8 per vedere il match della Pennetta contro una sconosciuta wild card della Repubblica Ceca. La tennista italiana conduceva tranquillamente il gioco, la partita era al limite del monotono, stavamo per andarcene e raggiungere il campo centrale per l’inizio del match di Roger Federer, quando improvvisamente: tack, al volo. Di nuovo, pallina in mano, applauso del pubblico, urla di Donatella, sguardo del raccattapalle “ietta sa pallina”, occhi di tutti addosso, confuzione e puf: un attimo dopo la pallina già rimbalzava sul cemento diretta tra le mani del raccattapalle. Ho percepito un bisbigliato ma perentorio “ma vaffanculo”, il posto accanto a me era già vuoto.
“Dove vai?”
“…”
“Te la sei presa? Scusami”.
“…”
“Donatella”
“…”
“La prossima la tengo… te lo giuro!”.
“…”
“Donatella…aspettami”.