Ieri notte mi sono addormentato con un sottofondo musicale esasperante: un mantra di ritmi latini che mi ha indotto un sonno nervoso e contornato da incubi. Ho sognato struggenti battaglioni di neomelodici nei dehors del centro; improbabili coppie da piano-bar con tastierone midi e cantante arrampicata su tacco vertiginoso e fasciata in abito di lamé due taglie più piccolo. Sparava acuti inappropriati e terminava ogni strofa con il peggior campionario di arzigogolate fiorettature. Ho sognato karaoke con aspiranti cantanti da talent show che dedicano hit tatangiolesche – interpretate due toni sotto e fuori da qualsiasi scansione metrico-ritmica della partitura – a un pubblico inerme. Improvvisazioni etnomusicologiche con zufoli, bummoli e tamburelli dei tempi che furono; i rapper ed i metallari duri e puri, poeticamente contro il sistema, ma in provincia disposti ad esibirsi nella pizzeria per famiglie a volumi da Coachella. Poi c’erano direttori creativi improvvisati, i cocktail al di là del bene e del male, i gestori che servono tutto in plastica, non ti danno manco un foglio di Scottex e pretendono il coperto, quelli che riciclano come aperitivo bordi di pizze già mangiate da altri, servono granita con la mosca dentro e a rimostranza rispondono: “la mosca ci entra pecchè la granita è docce, siggnore…”. Poi, sudatissimo, mi sono svegliato.
