Prima erano solo dei particolari pittoreschi e romantici di uno scorcio mattutino, adesso sono tra i miei più acerrimi nemici. Sono loro, i pescatori amatoriali del lungomare di levante e in particolare i due che stazionano sotto casa mia. Arrivano a bordo di Punto grigie che parcheggiano con cura e senza pass negli stalli residenti, aprono i bagagliai e cominciano a tirare fuori la loro attrezzatura che organizzano e stoccano sul marciapiede. Prima di iniziare, “sduacano” intere ceste di pane raffermo giù dal muraglione che, voglio dire, certamente sarà ecologico, ma in estate, quando quelli del solarium accanto si fanno il bagno tra scolli, manuzze e bocconcini, è come nuotare nella cambusa del Titanic mentre sta affondando. Comunque, con gesti precisi e accorti innescano gli ami delle loro canne e cominciano a lanciare. Io, lo dico subito, non ho niente in contrario con l’antica arte della pesca con la canna, anzi, quando ero bambino e passavo le estati nella villetta al mare dei miei nonni a Caponegro, anche io la praticavo. Andavo con mia mamma, all’alba, il gamberetto come esca e due cimette da quattro soldi. Pescavamo mazzoni, vavuse, pesci cavalieri e una volta una piccolissima cernia che mia madre mi convinse – con grande difficoltà – a ributtare in mare per il bene dell’ecosistema marino di Avola. Quello che è certo è che non è vero che la pesca è un’attività rilassante, anzi, sicuramente non lo è per un bambino, ma insegna a mantenere la calma, ad avere pazienza, a capire che non sempre si può ottenere quello che si vuole e soprattutto aiuta a rispettare la natura, gli esseri viventi e tutto quello che ci circonda.
I pescatori del lungomare di levante invece, almeno i due che stazionano sotto casa mia, di tutto quello che li circonda se ne stanno fottendo. Ho provato in questi mesi a farli ragionare, a chiedergli di spostare la macchina e lasciare parcheggiare chi ne aveva diritto, a evitare di occupare tutto il marciapiede con la loro attrezzatura e permettere anche agli altri di passarci sopra ma non c’è stato verso. Ho chiesto ai vigili ma ho ricevuto in risposta un’alzata di spalle, forse – mi sono detto – ci sarà un’accordo tra il Comune e il sindacato o l’associazione di categoria di riferimento, che garantisce il parcheggio impunito senza pass, non so. Ho provato anche ad impietosirli, quando all’ennesimo giro alla ricerca di un parcheggio, in un sabato di agosto, sotto un sole cocente, con una neonata a bordo che piange a dirotto per la fame, mi sono fermato accanto e li ho guardati con due occhioni languidi, sperando che capissero la situazione e che almeno uno dei due, mosso a compassione, spostasse la sua Punto grigia in doppia fila per permettermi di tornare a casa. Zero, niente, funce, il più anziano manco si è girato e ha continuato a fumare, l’altro ha fatto un gesto con la mano come a dire: ma chi bboi?
È una guerra persa e non c’è niente che si possa fare per ribaltarne le sorti, anche perché gli altri vicini si sono rassegnati ed io, nel mio piccolo, mi limito ad azioni di disturbo, ma poca roba, tipo che se devo uscire e sto per salire in macchina e mi accorgo che uno di loro è appostato dietro per prendersi il posto che sto lasciando, cambio programma, non esco più, torno indietro, vado a casa e disdico l’appuntamento o non faccio la spesa o annullo qualsiasi altra cosa avessi in programma. A loro non interessa, fanno i superiori, mi guardano con sufficienza perché sanno benissimo che nel giro di pochi minuti, qualcun’altro salirà in macchina e lascerà un posto vuoto. C’è un unico evento foriero di grandi soddisfazioni, certe volte, nella quiete della prima mattina, con il mare così calmo che le correnti ci disegnano sopra linee e sfumature e il sole che ha appena scavalcato la linea dell’orizzonte, certe volte dicevo, se si è fortunati si può sentire un grido disperato e poi la frase più bella del mondo: “minchia, arruccai! Buttana ra miseria.”.