Egregio Ristoratore,
l’ignobile sbuffo di glassa di aceto balsamico sulla mia porzione di masculino a cotoletta è un’onta che non potrà mai essere cancellata. Mai.
Le facce contrite dei turisti le vedi nelle mattine di Ortigia, con il sole ancora basso a sfiorare il mare e le ombre lunghe che
catturano quelle movenze felpate e tutto l’imbarazzo che manifestano mentre si aggirano furtivi, alla ricerca di qualche mastello dove conferire i propri rifiuti.
Quando ordino il fritto misto e mi portano solo i calamari e io lo faccio presente e il gestore se la prende come se lo avessi offeso o quando, dopo una cena mediocre, il proprietario ti chiede come è andata e se tu gli dici che non è andata poi così bene, risponde sempre piccato “qui non si lamenta mai nessuno” oppure “noi la pasta alla siracusana la facciamo così”. Ok, ma allora non chiedermi niente.
Per non parlare del vino e del rituale dell’assaggio.
– Chi lo assaggia?
– Guardi, non è il caso, è una bottiglia senza pretese, ci fidiamo.
– No, insisto!
Allora ti tocca la pantomima dell’annusata, lo sguardo attraverso il calice, il sorso contenuto e l’immancabile sorriso con cenno d’intesa:” va bene grazie”. Solo una volta ho azzardato un timido “guardi è molto acido e sa di tappo” per ricevere in tutta risposta un perentorio “eh! Non ci posso fare niente, ormai l’abbiamo aperto”.