In 12 giorni di Norvegia ho preso aerei, treni, aliscafi e traghetti, ho alloggiato in hotel e in case vacanze, ho perfino noleggiato un’auto, ma nessuno mi ha mai chiesto un documento d’identità. Mai. Io mi ero portato dietro anche il passaporto, metti che mentre sono in vacanza, l’Italia decide di uscire dall’Europa, Schengen e casini vari. Mi sentivo più tranquillo così e invece niente, ogni volta che provavo a mostrare il documento venivo stoppato. Ci fosse stato uno che si sia preso la briga di controllare che io fossi la stessa persona fotografata lì sopra. Perfino la macchinetta del check in all’aeroporto di Bergen si è rifiutata. Io tentavo di scansionare il passaporto e lei mi scriveva cose tipo: “esagerato” oppure “basta il numero della prenotazione”. La cosa mi è sembrata strana, soprattutto considerando quanta importanza diamo dalle nostre parti alla sicurezza, che è diventata argomento centrale dell’agenda politica.
Il fatto è che in Norvegia si fidano degli altri. Sono pochissimi, hanno un costo della vita spropositato e stipendi proporzionati, zero criminalità, qualche rissa alcolica e un problema con l’eroina, tanto da dover rimettere le luci viola nei bagni pubblici che manco la Berlino di Christiane F. e i picciotti dello Zoo. Hanno un governo conservatore di centrodestra, eletto per difendere le radici vichinghe e contrastare l’immigrazione. L’esecutivo però, negli ultimi tempi, ha scricchiolato sotto i colpi del fato e della vita: un ministro populista e xenofobo si è innamorato di una rifugiata iraniana e ha mollato tutto al grido di peace and love; un altro ha rassegnato le dimissioni per permettere alla moglie di realizzare il suo sogno professionale negli Stati Uniti, come le aveva promesso vent’anni prima. Insomma, mettetela come credete, ma si tratta di un Paese ad altissimo tasso di civiltà.

Il terziario, affidato a personale gentile e competente, si mixa alla perfezione con il do-it-yourself e garantisce servizi puntuali ed impeccabili. Se vuoi, puoi fare tutto da te, perfino il drop off in aeroporto: pesi il bagaglio, paghi la differenza se il peso è superiore a quello consentito, stampi e attacchi l’etichetta con la destinazione e schiacci il pedale del nastro trasportatore. In stazione, a Myrdal, ho visto un cane poliziotto che lavora da solo. Non era accompagnato da un agente umano, era autonomo, girava tra i bagagli, annusava, faceva il suo mestiere ed era molto rispettato. Probabilmente guadagnerà perfino più di un appuntato dei Carabinieri.
Ottimi stipendi, contratti part time e flessibilità, permettono ai norvegesi di lavorare il giusto e di poter investire il tempo libero in famiglia, di svagarsi e viaggiare. Tradotto: alta qualità della vita.
Il traghetto per le Lofoten era più pulito dell’ospedale di Siracusa e il camionista nerboruto, in canotta e baffoni, dopo essersi mangiato due porzioni di bacalao, si è messo a leggere “Ogni cosa è illuminata”di Safran Foer. A contatto con questa realtà il tempo si diluisce, cambiano le prospettive, svanisce lo stress e si inizia a respirare profondamente, immersi in una natura meravigliosa e incontaminata. Purtroppo come ogni cosa bella, anche questa era destinata a finire.
Il mio sogno si è infranto all’aeroporto di Amsterdam, al gate del volo per Catania. In pochi minuti sono tornato quello di prima: sospettoso, pieno di pregiudizi e di rancore, disposto a combattere fino alla morte per il trolley in cabina mentre – a gomiti alti – cercavo di difendermi da un orda di viaggiatori che voleva farsi beffe della fila all’imbarco.
Il volo è stato letteralmente preso d’assalto, le persone salivano a bordo con valigie spropositate che cercavano di infilare dove potevano, gridavano, si affannavano, sudavano. L’aereo era talmente vecchio da avere ancora i posacenere all’estremità dei braccioli. Se ci penso, ogni volta che ho preso un aereo così vecchio ero diretto a Catania, ero diretto a sud. Mai il contrario. Chissà se sia una coincidenza, una mia percezione o la politica precisa di alcune compagnie aeree. Dopo un’ora di ritardo accumulato in partenza, il comandante ci ha informato che per via dell’enorme traffico su Catania, ne avremmo accumulato altro sorvolando Fontanarossa fino all’autorizzazione della torre di controllo.
Nel terminal, i finger sputavano migliaia di passeggeri che confluivano a passo svelto verso la sala del ritiro bagagli e si sommavano a quelli scaricati dai bus navetta. Sembrava la scena di un film catastrofico o un colpo di stato. Mentre aspettavo la mia valigia al nastro numero 2 – che distribuiva contemporaneamente i bagagli di quattro voli – mi guardavo intorno demoralizzato e confuso. In questo caos si faceva largo un finanziare con un cane antidroga al guinzaglio, probabilmente – ho pensato – c’è ancora qualcuno che torna da Amsterdam e ammuccia l’erba o il fumo nella valigia. Alla mia sinistra, un uomo stava mangiando un arancino da un fazzoletto insivato e io non riuscivo a capire come diavolo se lo fosse procurato: l’aveva portato con se dalla città di provenienza? glielo hanno passato da fuori? Come ha fatto?
Ho ripensato alle atmosfere rarefatte che avevo lasciato in Norvegia, agli scompartimenti dei treni dove è vietato parlare, all’educazione delle file nei loro aeroporti e perfino al cane poliziotto di Myrdal, sicuramente meno stressato di questo qui e mi sono chiesto: ma io che ci faccio qui? Poi, l’uomo alla mia sinistra, indicando il cane antidroga, si è rivolto al finanziere e gli ha domandato: “ciù pozzu rari un pizzuddu d’arancino o cane?“. Allora sì, ho capito.