Alla Catanese

Mentre la polizia ammanettava e portava fuori i facinorosi, sono tornato indietro per recuperare il drink di Donatella, rimasto miracolosamente intatto nonostante la gigantesca rissa appena sedata. Il mio ero riuscito a salvarlo un attimo prima di essere sfiorato da un bestione calvo e tatuato che si scagliava contro un altro malacarne del posto. Non mi sono trattenuto e ho chiesto al bar tender: «wich kind of fight is it?». Lui mi ha fulminato con lo sguardo e mentre con un panno asciugava il bancone e raccoglieva pezzi di vetro, ha risposto: «It’s a fucking brawl, buddy». Allora ho detto: «Where I come from we call it catanese style». E lui, stavolta senza nemmeno guardarmi, serissimo ha replicato: «We don’t». Ho capito che la conversazione era terminata lì. Eravamo al bar del Padre Hotel di Bakersfield, California, l’indomani avremmo dovuto raggiungere Yosemite e io non vedevo una rissa con gente che si partiva alla catanese da più di vent’anni.

Accapparsi alla catanese significa affrontare il nemico con forza bruta e accecato dall’ira. Senza strategie, senza colpi precisi. Accapparsi alla catanese è una valanga di tumpulate, una gragnuola di pugni e pedate alla rinfusa: come un rullo compressore, avanzare sempre e indietreggiare mai. La frequenza dei colpi di chi si accappa alla catanese è tale da rendere complicato qualsiasi tentativo di difesa o contrattacco. Fronteggiare uno che si accappa alla catanese diventa impegnativo anche per un karateka o un judoka abituato ad allenarsi in un dojo di provincia. Ma quale Sensei e Sensei, mpare, quello che hai davanti è un pazzo scattiato e ti vuole scippare la testa per un futile motivo. Per i pugili forse è diverso, loro sanno incassare e se solo trovano lo spiraglio giusto, abbaullano anche quello che si parte alla catanese, non lo so. Il massimo, comunque, è quando tutti i contendenti si accappano alla catanese: l’ira di Dio.

Chi è stato adolescente negli anni ’90 a Siracusa sa di cosa sto parlando: è stato un periodo buio e difficile. Se da un lato quella generazione ha assistito e contribuito alla rinascita di Ortigia, dall’altro è stata vessata da picciuttazzi e malacarni assortiti. Le cappotte violente in piazza Duomo, i furti di giubbotti, orologi e perfino di scarpe. Bastava un pretesto per fare scoppiare il finimondo. Perfino le ragazze avevano le proprie gang. Una volta un mio amico, persona rispettabilissima, fu affiancato – zona piazza Adda – da uno zip truccato, in sella una coppia di ragazze tutte meches, scatush ed extension. Quella alla guida gli chiese: mpare, hai fumo? Lui, preso alla sprovvista, fece un’espressione stupita, come a dire: non ho capito. E l”altra seduta dietro, spazientita: lassalu peddiri, nun u viri ca è na facc’i minchia?

Ristabilita la calma nel bar del Padre Hotel di Bakersfield, California, un agente di polizia si è avvicinato per chiedere anche a noi cosa fosse successo. Donatella, che parla inglese molto meglio di me, gli ha detto che era stato un attimo: prima era tutto tranquillo, poi improvvisamente si è scatenato il caos, ma non sapevamo dire per quale ragione o chi avesse cominciato. L’agente ci ha detto di restare dove eravamo e si è allontanato per andare a parlare con il sergente. Io sono rimasto immobile in attesa che qualcuno mi congedasse e mi sono sentito come quando un nugulo di malacarni motorizzati ci intimo di accostare in viale Zecchino. Ero con Gianluca, in pieno pomeriggio. Il dialogo che ne scaturì fu surreale.

– Aipezz?

– Scusa?

– Aipezz?

– Ma… non… non capisco.

– Ouh, test’iminchia, ti stai ricennu: Aipezz?

– No, mi dispiace.

– Rap’a sella, fozza.

Gianluca, come se si trattasse di un controllo delle forze dell’ordine, ubbidì sollevando la sella della sua Vespa pk. Il capo dei malacarni sgranò gli occhi e in tono canzonatorio, rivolto al branco disse: «Ah, l’avipezz!». Solo allora capimmo che cercava un panno per pulire lo sbuffo di miscela che era scolato sul fianco del suo scooter rubato. Presa la pezza, il capo si allontanò per riunirsi in conciliabolo con il branco, li sentivamo confabulare, avevamo mancato di rispetto e loro stavano deliberando la pena da infliggerci. Noi aspettavamo la sentenza, lì, ai lati della strada. Poi finalmente devono aver trovato un accordo perché più voci hanno esclamato all’unisono: «ramuci a tumpulata». Così fu, pena scontata.

Il poliziotto è tornato con un mezzo sorriso e ci ha detto che potevamo andare. Siccome eravamo turisti si è perfino scusato a nome del Dipartimento di Polizia di Bakersfield, California, dicendo che in città stavano cercando di debellare questi rigurgiti di violenza con assistenti sociali e taser.

Col passare del tempo, a Siracusa, si sviluppò un vero e proprio movimento di resistenza clandestina che faceva proseliti tra gli studenti e si alimentava di racconti, locali sicuri, caratteristiche dei malacarni: nomi, cognomi, quartiere, moto guidata, luogotenenti, cosa li faceva imbufalire, pretesti, soprusi, punti deboli. Una vera e propria letteratura partigiana. Le migliori menti di quella generazione si misero all’opera per studiare il fenomeno e trovare una soluzione. Se eri uno che non voleva avere e creare problemi, il consiglio era di non rispondere a provocazioni, di rendersi invisibile e fare in modo che nessun malintenzionato notasse la tua presenza o quella dei tuoi amici. Oppure, se la tipologia di aggressore lo permetteva, intavolare un dialogo per far capire al sanguinario piantagrane che in fondo non ne valeva la pena, che picchiandoti avrebbe sprecato il suo tempo e che c’erano sicuramente delle attività criminali più interessanti da compiere. Il succo era: non dare l’impressione di sentirsi migliori del malacarne. Quindi, umiltà e portare a casa la pellaccia.

La letteratura dell’epoca racconta che i primi che provarono empiricamente questa teoria furono Giovanni e i suoi amici. Nel tentativo di entrare in macchina per fare ritorno a casa, Giovanni riuscì a calarsi nell’abitacolo sfiorando con lo sportello un Vespone parcheggiato a venti centimetri dalla sua auto. Un gruppo di scalmanati – insieme al proprietario del Vespone – sembravano non aspettare altro, uscirono dal bar dove erano rintanati e si scagliarono come fulmini contro l’auto di Giovanni: urla, sputi, offese, pugni sul cofano. Il proprietario voleva conto e ragione e con la faccia a due centimetri dal finestrino gridava: «Cu è u chiù spacchiuso ca rintra?».

Giovanni, barricato in auto, forte delle lezioni teoriche, non perse la calma, azionò la manovella del finestrino fino ad aprirne uno spiraglio e disse: «no mpare, tranquillo, ca semu tutti test’i minchia».

Qualità della vita

Classifica qualità della vita, la provincia di Siracusa perde 2 posizioni e si attesta al 107° posto. Delusione da parte del Comune capoluogo: i parametri di riferimento non hanno tenuto conto del presepe subacqueo, dell’albero di natale in tetrapak e della possibilità di acquistare ricci di mare e pescato di frodo anche in periodo di fermo biologico.

Sinergie x l’ambiente

Il progetto Urban Waste sulla corretta gestione dell’olio esausto trova una importante sponda istituzionale nel Consorzio pescatori di frodo Piazza delle Poste che si farà carico del corretto smaltimento degli oli e offrirà a tutti i partecipanti all’incontro di oggi, una fritturina di paranza e la t-shirt con il claim “Waste oil & Camperetti”.

Viaggio al termine dell’arancino

In 12 giorni di Norvegia ho preso aerei, treni, aliscafi e traghetti, ho alloggiato in hotel e in case vacanze, ho perfino noleggiato un’auto, ma nessuno mi ha mai chiesto un documento d’identità. Mai. Io mi ero portato dietro anche il passaporto, metti che mentre sono in vacanza, l’Italia decide di uscire dall’Europa, Schengen e casini vari. Mi sentivo più tranquillo così e invece niente, ogni volta che provavo a mostrare il documento venivo stoppato. Ci fosse stato uno che si sia preso la briga di controllare che io fossi la stessa persona fotografata lì sopra. Perfino la macchinetta del check in all’aeroporto di Bergen si è rifiutata. Io tentavo di scansionare il passaporto e lei mi scriveva cose tipo: “esagerato” oppure “basta il numero della prenotazione”. La cosa mi è sembrata strana, soprattutto considerando quanta importanza diamo dalle nostre parti alla sicurezza, che è diventata argomento centrale dell’agenda politica.

Il fatto è che in Norvegia si fidano degli altri. Sono pochissimi, hanno un costo della vita spropositato e stipendi proporzionati, zero criminalità, qualche rissa alcolica e un problema con l’eroina, tanto da dover rimettere le luci viola nei bagni pubblici che manco la Berlino di Christiane F. e i picciotti dello Zoo. Hanno un governo conservatore di centrodestra, eletto per difendere le radici vichinghe e contrastare l’immigrazione. L’esecutivo però, negli ultimi tempi, ha scricchiolato sotto i colpi del fato e della vita: un ministro populista e xenofobo si è innamorato di una rifugiata iraniana e ha mollato tutto al grido di peace and love; un altro ha rassegnato le dimissioni per permettere alla moglie di realizzare il suo sogno professionale negli Stati Uniti, come le aveva promesso vent’anni prima. Insomma, mettetela come credete, ma si tratta di un Paese ad altissimo tasso di civiltà.


Il terziario, affidato a personale gentile e competente, si mixa alla perfezione con il do-it-yourself e garantisce servizi puntuali ed impeccabili. Se vuoi, puoi fare tutto da te, perfino il drop off in aeroporto: pesi il bagaglio, paghi la differenza se il peso è superiore a quello consentito, stampi e attacchi l’etichetta con la destinazione e schiacci il pedale del nastro trasportatore. In stazione, a Myrdal, ho visto un cane poliziotto che lavora da solo. Non era accompagnato da un agente umano, era autonomo, girava tra i bagagli, annusava, faceva il suo mestiere ed era molto rispettato. Probabilmente guadagnerà perfino più di un appuntato dei Carabinieri.

Ottimi stipendi, contratti part time e flessibilità, permettono ai norvegesi di lavorare il giusto e di poter investire il tempo libero in famiglia, di svagarsi e viaggiare. Tradotto: alta qualità della vita.

Il traghetto per le Lofoten era più pulito dell’ospedale di Siracusa e il camionista nerboruto, in canotta e baffoni, dopo essersi mangiato due porzioni di bacalao, si è messo a leggere “Ogni cosa è illuminata”di Safran Foer. A contatto con questa realtà il tempo si diluisce, cambiano le prospettive, svanisce lo stress e si inizia a respirare profondamente, immersi in una natura meravigliosa e incontaminata. Purtroppo come ogni cosa bella, anche questa era destinata a finire.

Il mio sogno si è infranto all’aeroporto di Amsterdam, al gate del volo per Catania. In pochi minuti sono tornato quello di prima: sospettoso, pieno di pregiudizi e di rancore, disposto a combattere fino alla morte per il trolley in cabina mentre – a gomiti alti – cercavo di difendermi da un orda di viaggiatori che voleva farsi beffe della fila all’imbarco.

Il volo è stato letteralmente preso d’assalto, le persone salivano a bordo con valigie spropositate che cercavano di infilare dove potevano, gridavano, si affannavano, sudavano. L’aereo era talmente vecchio da avere ancora i posacenere all’estremità dei braccioli. Se ci penso, ogni volta che ho preso un aereo così vecchio ero diretto a Catania, ero diretto a sud. Mai il contrario. Chissà se sia una coincidenza, una mia percezione o la politica precisa di alcune compagnie aeree. Dopo un’ora di ritardo accumulato in partenza, il comandante ci ha informato che per via dell’enorme traffico su Catania, ne avremmo accumulato altro sorvolando Fontanarossa fino all’autorizzazione della torre di controllo.

Nel terminal, i finger sputavano migliaia di passeggeri che confluivano a passo svelto verso la sala del ritiro bagagli e si sommavano a quelli scaricati dai bus navetta. Sembrava la scena di un film catastrofico o un colpo di stato. Mentre aspettavo la mia valigia al nastro numero 2 – che distribuiva contemporaneamente i bagagli di quattro voli – mi guardavo intorno demoralizzato e confuso. In questo caos si faceva largo un finanziare con un cane antidroga al guinzaglio, probabilmente – ho pensato – c’è ancora qualcuno che torna da Amsterdam e ammuccia l’erba o il fumo nella valigia. Alla mia sinistra, un uomo stava mangiando un arancino da un fazzoletto insivato e io non riuscivo a capire come diavolo se lo fosse procurato: l’aveva portato con se dalla città di provenienza? glielo hanno passato da fuori? Come ha fatto?

Ho ripensato alle atmosfere rarefatte che avevo lasciato in Norvegia, agli scompartimenti dei treni dove è vietato parlare, all’educazione delle file nei loro aeroporti e perfino al cane poliziotto di Myrdal, sicuramente meno stressato di questo qui e mi sono chiesto: ma io che ci faccio qui? Poi, l’uomo alla mia sinistra, indicando il cane antidroga, si è rivolto al finanziere e gli ha domandato: “ciù pozzu rari un pizzuddu d’arancino o cane?“. Allora sì, ho capito.

Senza ghiaccio

– Ma tu viaggi assai?

– No… non proprio. Anzi, mi piacerebbe viaggiare di più.

– Ommai cu Raianèr l’aeri custunu picca, però c’è sta gran camurria dei ritaddi. Du uri su assai!

– Guardi, non me ne parli, rischio di perdere la coincidenza.

– U sacciu. macari io… a camurria ri fari sti scali è chista. A priva vota ca pessi a coincitenza all’aeropotto a Gemmania, m’assittai o bar e vireva a chisti ca si calaunu sti gran panini ca canni e si viveunu sti gran bicchieruni i birra. O cammareri ci fici signu e ci rissi: u paninu come a chiddu ma puttare. Ouh, com’è ca mi puttaru na speci i ‘nsalata unni c’era u mais, a carota, un pummaroru lariu e  n’pezz i burro tantu! Dicalafici, ti renti conto? Mancu na proteina. Comunque a cosa meglio è u manciari mediterraneo… u coppo ra pasta, va! Ma non è usanza so, i teteschi manciunu male.

– Certo, la dieta mediterranea è notoriamente la più sana e bilanciata. Comunque non si preoccupi, il comandate ha appena fatto l’annuncio che abbiamo recuperato in volo e che atterreremo solamente con un’ora di ritardo, per cui dovremmo riuscire a prendere le rispettive coincidenze.

– Ouh, grazie. Ma allora quannu atterramu?

– Alle 20:45, tra 40 minuti.

– Allora avemu u tempo preciso preciso pi fàrini ‘n Camparigin.

– Purtroppo su questo volo non servono alcolici… Ah, ma se lo fa lei!

– Shhh, nu nni facemu sgamare… eh eh eh.

– Ma il ghiaccio ce l’ha?

– No, senza ghiaccio.

Scinni macari lei a Catania?

Rimpiango quando agli arrivi dell’aeroporto di Catania c’erano solo due nastri per i bagagli: uno voli nazionali e l’altro, resto del mondo. Era una Sicilia genuina e accogliente fino all’esasperazione, il parcheggio era gratuito e delegazioni di parenti – tre o quattro per viaggiatore atterrato – affollavano la sala per aiutare il viaggiatore a ritirare la valigia. Si facevano largo, ammuttavano, sudavano, “pemmesso, pemmesso”, oppure: “Ca è, ca è, pigghila tu, chidda gialla e niura co stemma i l’Agip”.
Calore umano, baci, abbracci, confusione, pianti di gioia, emozioni, poesia, “ti ho fatto la caponata”, “ti vedo sciupato, mangiati questo panino con la cotoletta, presto”. Anche i viaggiatori erano diversi: c’era una minore confidenza con il volo. Chi non si è visto rivolgere dalla signora anziana spaesata, la fatidica domanda: “Scinni macari lei a Catania?”. Una volta aiutai una coppia di settantenni a mettere il borsone in cappelliera. Loro erano bassissimi e il mio gesto li impressionò a tal punto che per tutto il volo, seduti accanto, mi chiamavano: “U Supermàn”, con la a. Conservo ancora il loro indirizzo di Pietraperzia.
I protocolli di sicurezza, i regolamenti internazionali, si sono portati via la poesia e le emozioni, sostituendole con finta efficenza e atmosfera impersonale. A Catania i nastri bagagli sono diventati cinque e i parenti, sempre meno numerosi, aspettano fuori dalle porte o continuano a girare in macchina, per non pagare il parcheggio.
Solo raramente, a tarda notte, può ancora capitare di imbattersi nel tizio che si piazza all’inizio del nastro trasportatore, aspetta il suo trolley, è nervoso, vuole uscire a fumare e allora inizia a dare manate e pugni alla saracinesca chiusa dalla quale verrano fuori i bagagli e se si è fortunati, lo si può sentire dire: “Ni muvemu? Bastaddi”.